Ci sono 300 milioni per il Corridoio di Lobito, un collegamento ferroviario tra Angola e le miniere dello Zambia, ma anche 71 milioni per la produzione di biocarburanti in Kenya e per progetti relativi all’istruzione in Costa d’Avorio ed Egitto. Il Piano Mattei mostra la sua faccia più concreta, quella di progetti per 600 milioni di euro da realizzare in Africa, contenuti in una relazione inviata alla Camera. L’obiettivo principale, spiega Mario Giro, ex viceministro degli Esteri nei governi Letta, Renzi e Gentiloni, (che ha curato il volume “Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa“, Guerini e Associati 2024) resta quello di favorire le produzioni locali e la nascita di un mercato interno, perché solo così si può immaginare un futuro autonomo per i Paesi del continente. Le criticità non mancano: in molte nazioni ci sono problemi di sicurezza, diversi governi sono nati in seguito a colpi di Stato e le risorse sono limitate. Il piano, tuttavia, almeno nelle intenzioni, vuole contribuire a superarle, cercando di instaurare rapporti nuovi, basati sulla collaborazione paritetica, con un continente che impatta direttamente sull’Italia e sull’Europa.
Le prime indicazioni sui progetti da realizzare che immagine ci restituiscono del Piano Mattei e dei suoi obiettivi?
Il piano vuole aiutare gli africani a sviluppare un’industrializzazione endogena, a partire dall’agricoltura. Parlare della quantità di soldi che servono è solo uno dei temi, perché quello che serve agli africani, in realtà, sono la tecnologia e la capacità di sviluppare un proprio settore produttivo. Oltre all’agricoltura, questo discorso vale anche per le energie rinnovabili, le infrastrutture medie, l’ultimo miglio delle strade che arriva alle abitazioni delle persone, oppure il turismo. Insomma, ci sono molti altri settori in cui possiamo dare una mano.
L’importante, quindi, è che l’Africa sia in grado di produrre e di avere un mercato interno? Un modo per garantire a chi ci abita di avere un futuro anche a casa propria senza espatriare?
È un tema che si sviluppa sul lungo periodo, ma da qualche parte bisogna cominciare. Questo comunque è sicuramente uno degli obiettivi, anche se sappiamo che ci vorrà molto tempo per raggiungerlo.
Quali sono i punti di forza del Piano Mattei?
Innanzitutto il fatto che per la prima volta si focalizzano tutte le risorse del Paese: l’Italia è almeno 15 anni che cerca un rapporto con l’Africa, ma lo ha perseguito in maniera discontinua. Speriamo che questa volta venga creato qualcosa che rimane. La mia preoccupazione è sempre la continuità: noi italiani abbiamo buone idee ma siamo poco costanti. Il secondo aspetto da sottolineare è, come detto, che l’Africa abbia un suo mercato e produca. La terza cosa è avere un partenariato che ascolta gli africani, anche se poi si apre il discorso su quali africani bisogna ascoltare: i governi parlano con i governi, ma è chiaro che bisogna dialogare anche con la società civile.
Le criticità, invece, quali sono?
Sono tante: la corruzione nei Paesi africani, la difficoltà oggettiva di stabilire un’industrializzazione in un continente in cui le comunicazioni, i trasporti e l’energia non sono totalmente fruibili da tutti. Io insisto molto sulle reti infrastrutturali medie, che arrivano fino alle piccole città, agli insediamenti dell’interno, alle zone rurali da dove partono i migranti. Non ci sono solo i grandi corridoi che servono al commercio globale.
Sono obiettivi considerati dal Piano Mattei?
Sì, certo, poi bisogna metterli in pratica. Molti citano come criticità la mancanza di risorse, ma credo che sia un problema minore: gli africani sanno perfettamente di quanti soldi l’Italia può disporre, ma a loro il nostro Paese interessa più come partner per il know-how che per il denaro. L’Italia è un modello che si pensa di poter imitare: ha pochissime grandi imprese, come Eni, Leonardo, Webuild, Fincantieri, Enel, ma ha tante medie aziende, multinazionali tascabili che possono fare da esempio.
Uno dei problemi dell’Africa è quello della sicurezza. Viene tenuto in considerazione dal Piano Mattei?
Lo si tiene in considerazione nella scelta dei Paesi: quando si punta su Kenya e Costa d’Avorio si capisce che si preferiscono quelli già stabili. Ovviamente si comincia da lì. C’è la sfida dell’Etiopia, che è un Paese con grandi complicazioni. Vedremo come si possono affrontare. È comunque una nazione che ha ottime relazioni con noi, anche se bisogna tenere conto dei limiti di questa situazione.
In Africa, soprattutto nel Sahel, ma non solo, ci sono molti governi nati da colpi di Stato, dove non c’è democrazia. Bisogna parlare anche con loro o se si tratta di autocrazie il discorso cambia?
La democrazia è sempre dirimente. Quello degli Stati autoritari o golpisti non è un tema nuovo, però non dobbiamo isolare nessuno. Per noi la democrazia rimane il migliore dei sistemi, ma sappiamo anche che ci sono Paesi che hanno scelto altre strade. Preferiamo parlare con i governi democratici, ma non possiamo dimenticare completamente gli altri.
L’Italia da sola può incidere veramente sulla realtà africana o ha bisogno di collaborare con altri, la UE e gli USA in primis?
Bisogna essere pragmatici: è chiaro che è sempre meglio collaborare. Se riuscissimo, come tentano di fare i diplomatici, a collegarci bene con il Global Gateway europeo (progetto UE per realizzare infrastrutture nei Paesi in via di sviluppo), sarebbe più che positivo. Le critiche che si fanno al piano, per cui gli interventi previsti sono progetti vecchi ribrandizzati e i soldi sono troppo pochi, sono le stesse identiche critiche mosse a questo piano europeo. Tutti dicono che i fondi non bastano, sia per i 5 miliardi e mezzo del Piano Mattei che per i 300 del Global Gateway, confrontandoli con gli oltre 900 miliardi di investimenti dei cinesi per la Via della Seta.
In effetti la differenza è consistente.
Ma non è un motivo per non iniziare. La collaborazione è sempre utile, non solo con Europa e americani: ci sono tanti investitori internazionali. Dire che avremmo bisogno di ben altro è una grande scusa: bisogna cominciare, perché quello che serve è creare un modello nuovo di relazione con gli africani, che non sia predatorio, come dice Giorgia Meloni, ma paritario. Vediamo se riusciamo a realizzarlo, perché il paternalismo è sempre in agguato. I francesi sono in crisi, i tedeschi si interessano ad altro, gli spagnoli hanno i loro problemi, ma noi dobbiamo fare il nostro. Poi vedremo se ci seguiranno e riusciremo a cooperare: speriamo.
L’obiettivo vero del Piano Mattei, quindi, qual è?
Cercare di fare in modo che l’Africa abbia un suo settore produttivo. Tutto il resto è importante, utile, ma ciò che non è stato fatto dagli europei con gli africani è questo. Occorre creare un piccolo circolo virtuoso per fare in modo che ci si imiti a vicenda. Se la cosa funzionasse, sono convinto che ci appoggerebbe anche il resto della UE.
Nel piano hanno un ruolo anche le Ong?
Certamente. Quando ero viceministro della Cooperazione ho creato un bando perché operassero insieme imprese e Ong, un aspetto assunto totalmente nel piano. Le Ong ci sono, partecipano agli incontri con i diplomatici per capire le esigenze africane. Nei settori della sanità e dell’educazione c’è molta presenza delle Ong italiane. La sfida è di metterci dentro anche le Ong africane, un compito complicato in un contesto in cui a volte queste realtà sono create dagli stessi Stati. Una sfida che andrà affrontata, così come il ruolo delle diaspore, degli africani che ora vivono in Europa e in Italia. Un ultimo aspetto da considerare sono i progetti che offrono opportunità di formazione in Italia a persone destinate poi a tornare nel loro Paese una volta formate.
(Paolo Rossetti)
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