La scorsa settimana vi è stata una significativa levata di scudi in risposta al pacchetto Fit for 55 presentato dalla Commissione europea: la finalità delle 13 misure previste è quella di rendere attuativo l’indirizzo politico dell’Unione – presentato nel 2019 e meglio noto con il nome di Green New Deal -, ovvero di ridurre le emissioni di carbonio del 55% entro il 2030 (rispetto ai livelli del 1990) e di avvicinare l’Europa all’obiettivo della carbon neutrality (2050).
Lo stesso ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha parlato di pericolo di “bagno di sangue”, riferendosi naturalmente non agli obiettivi politici (che condivide), ma, appunto, alle misure attuative, ritenendo che queste forzino i tempi delle imprese e dell’economia. Di questi e altri rischi socioeconomici, in particolare per lavoro e potere d’acquisto, ne ha scritto su queste pagine Angelo Colombini.
Vi è a monte un problema che potremmo riassumere in questi termini: la politica pubblica che funziona non dirige il cambiamento, lo accompagna. Questo rischio, nella potente burocrazia europea, è sempre presente. Del resto, proprio negli anni della crescita debole (2017-2020), l’accelerazione della Commissione sulla transizione ecologica aveva già messo in difficoltà gli stessi produttori – in particolare del settore nevralgico dell’automotive – che, peraltro, imputano al decisore politico i contrattempi della loro industria e del loro mercato nel periodo pre-pandemico.
Chi scrive ritiene, invece, che la crescita debole vada ascritta ai ritardi che scontiamo nella trasformazione industriale, in particolare, rispetto a Usa e Cina. Si pensi, come abbiamo più volte riportato, che l’85% degli investimenti in intelligenza artificiale è stato realizzato da imprese americane e cinesi: il gap di innovazione è sempre un gap di competitività. Resta il fatto che la Commissione interloquisce con le industrie più al passo del cambiamento e che, in più di una occasione, è emerso qualche disallineamento. Quindi, è cosa buona che non vi siano strappi, al di là del fatto che il problema che ha l’Italia è legato alla sua microimpresa, in gran parte distante dai processi di innovazione.
Vi è però un punto di fondo: se l’Ue non sta semplicemente sventolando la bandiera “green” – è ormai fattore identitario e si traduce in un messaggio che arriva al consumatore – ciò ha delle implicazioni importanti. In particolare: (1) l’Ue sta indicando al proprio mercato il prodotto europeo; (2) questo prodotto tendenzialmente crescerà i suoi costi.
La transizione ecologica ed energetica, in buona sostanza, non è “aggratis”. Del resto, in quest’ottica, l’Ue sta mobilitando oltre 1.000 miliardi per l’innovazione tecnologica – che significa in particolare digitale ed energetica – delle sue filiere produttive: l’operazione ha un senso se, alla fine, il mercato premierà il prodotto locale. Ecco perché, più volte, Ursula von der Leyen ha parlato di dazi e perché il primo obiettivo del Green Deal è il consolidamento del mercato interno.
Tuttavia, questi traguardi possono essere raggiunti se l’economia torna a girare, ovvero se migliorano retribuzioni e livelli occupazionali: solo questo può sostenere l’evoluzione del prodotto e del mercato. Diversamente sarà difficile per l’economia assorbire i costi della transizione ecologica. Sono tutti obiettivi previsti sia dal Green Deal (2019), sia dal Pilastro sociale europeo (2017) ed è cosa ottima averne fatto oggetto di programmazione politica: senza pianificazione, non vi è sviluppo. Si consideri inoltre che a fine ottobre 2020, la Commissione ha emanato la direttiva sul salario minimo adeguato: negli ultimi anni, anche laddove vi è il salario minimo legale, il rallentamento dell’economia ha comportato una crescita del fenomeno del lavoro povero. Le retribuzioni, naturalmente, possono aumentare o perché le imprese pagano di più o attraverso la leva del fisco. Difficile immaginare, nel nostro Paese, una crescita se non attraverso il taglio del cuneo fiscale: vi sono settori dove il costo del lavoro ha incidenze relative (15%, si pensi al settore chimico-farmaceutico, alimentare, energia), ve ne sono altri dove si arriva a livelli molto alti (60%, si pensi alla logistica o al settore tessile, in particolare a quello legato al confezionamento).
A ogni modo, l’Unione europea – con questa Commissione – sta procedendo in modo nuovo e articolato. Ora però bisogna dare attuazione a questi obiettivi, in particolare negli Stati membri. Questo, naturalmente, riguarda anche il nostro Paese. Ed è la cosa più difficile.
Twitter: @sabella_thinkin
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