La morte nella notte tra venerdì e sabato di Piero Angela, avvenuta a 93 anni dopo una lunga malattia che non gli ha impedito – potere della mente! – di rimanere in qualche modo attivo fin quasi all’ultimo, ha suscitato in poche ore una valanga di commenti, dichiarazioni, ricordi da parte di mass media e istituzioni. Quello del presidente Sergio Mattarella li riassume così: “La Repubblica gli è riconoscente”. Interventi sinceri e doverosi ad una vera e propria istituzione culturale del nostro Paese che sentiamo di poter accomunare ad un’altra figura di analogo valore come quella di Alberto Manzi, il maestro della tv in bianco e nero anni Sessanta di Non è mai troppo tardi, antesignano – in tempi di analfabetismo ancora molto diffuso mentre l’Italia conosceva i fasti del boom economico – della scuola online quando i pc erano mastodontici strumenti in mano a pochi scienziati.
Affiancare Angela e Manzi ha più di una ragione. Anzitutto erano quasi coetanei: il primo, torinese, erano nato nel 1928; il secondo, romano, quattro anni prima. Appartenevano, cioè, alla generazione compresa fra le due guerre mondiali, tante speranze e pochi soldi in tasca, la consapevolezza che – fortuna e cromosomi a parte – solo grazie ad una sana fatica si poteva sperare di vincere la povertà, non soltanto economica, di un Paese in larga parte contadino.
Ma la ragione più bella (da qui la riconoscenza cui accenna il presidente della Repubblica) sta nel fatto che entrambi hanno saputo creare trasmissioni culturali, vuoi di alfabetizzazione, vuoi di divulgazione scientifica, all’interno del servizio televisivo pubblico. Non era scontato all’epoca del canale unico Rai, azienda che andava appena uscendo dalla sperimentazione, come non lo era quando i canali erano già diventati tre e le ore di trasmissione coprivano tutte l’arco del giorno. La differenza, semmai, sta nel fatto che Non è mai troppo tardi (la lavagna con i gessi, Manzi che disegnava con maestria un’ape per abbinarla ad una grande A scritta prima in stampatello e poi in corsivo, la classe virtuale sparsa lungo tutto lo Stivale composta soprattutto da operai che faticavano a tenere la penna in mano e contadine dal foulard nero in testa) trovava spazio in una Rai che sapeva bilanciare i primi quiz di Mike Bongiorno con i telegiornali in doppio petto, la “Tv dei ragazzi” che apriva le trasmissioni rigorosamente alle 5 del pomeriggio, i seriosi sceneggiati tipo Il mulino del Po e Le inchieste del commissario Maigret, le commedie teatrali del venerdì sera, gli Intervalli in musica (pochi secondi fra un programma e l’altro quando la pubblicità non possedeva ancora la protervica invadenza di oggi) con le immagini statiche delle bellezze naturali ed artistiche del Bel Paese, oltre ai concerti radiofonici di musica classica alla domenica mattina.
Se abbiamo una sola nostalgia di quella televisione, di cui per età abbiamo per altro solo incrociato la coda, è che sapeva fare buona cultura. Era, cioè, impostata come “servizio”. Con tanti limiti (primo fra tutti il totale asservimento ai dettami politici a senso unico o quasi), ma anche con la consapevolezza che l’irritante vacuità di certi quiz a premi, di tanti varietà a banalità libera, delle pellicole proposte e riproposte cento volte senza ritegno in prima serata, delle serie senza capo né coda importate a basso costo da oltre oceano dove il morto ammazzato invade la cucina all’ora di cena, poco o nulla c’entravano con l’impegno di accompagnare gli italiani verso una solida educazione anche culturale.
Alberto Manzi e Piero Angela hanno fatto parte di quel Paese, di quella Rai, di quel “servizio”. Cosa ne sia rimasto, al di là di pregevoli e persino encomiabili spazi culturali che fanno capolino qua e là, è evidente a tutti. Ecco, ci piacerebbe che qualche intellettuale, dentro –ma è difficile – e fuori i canali televisivi, cogliesse l’occasione offerta dalla morte dell’inventore di Quark per rimarcarlo. Ma forse, ancor più in tempi di campagna elettorale, chiediamo troppo.
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