In Italia l’Istat ha due succursali ufficiose. Si tratta della Cgia di Mestre e della Cgil. A turno queste “benemerite” organizzazioni sfornano statistiche che rimbalzano sui media come se fossero oro colato. Oddio! Anche l’Istituto centrale di statistica ci ha abituati a un’interpretazione dei dati un po’ orientata a sinistra: basti pensare a come viene alimentata la mistica del precariato insistendo nel valutarne l’entità al momento delle assunzioni, senza mai dare conto di quando i rapporti flessibili si stabilizzano. Se non fosse così non si spiegherebbero i dati di stock (in cui una netta maggioranza di lavoratori dipendenti si avvale di un contratto a tempo indeterminato) se messi a confronto con quelli di flusso, secondo i quali emerge che almeno i due terzi delle nuove assunzioni avvengono con contratti temporanei.
Ciò premesso (si potrebbero citare altre indagini sospette), torniamo alla Cgil, la quale, pochi giorni or sono, ha denunciato, con toni allarmistici, che, con l’anno nuovo, non verranno rinnovate alcune centinaia di migliaia di contratti precari. La responsabilità di tale evento, secondo la versione della confederazione di Susanna Camusso, va cercata nella pervicacia delle aziende nell’aggirare la legge n. 92 del 2012 nota con il nome del ministro Elsa Fornero. Intendiamoci: è assolutamente vero che i datori si orientano verso quelle tipologie di assunzione che a loro appaiono meno vincolanti. Pare che si faccia sempre più spesso ricorso ai rapporti in somministrazione, preferendoli persino ai contratti a termine che, per 12 mesi, possono fare a meno di una causale.
Se così fosse effettivamente sarebbe una buona notizia, perché consideriamo la somministrazione una forma “virtuosa” di flessibilità, dove i lavoratori godono di migliori tutele, anche sul piano contrattuale. Vi sono però altre tipologie di impiego – fino a pochi mesi fa pienamente legittime – che sono state caricate dalla riforma del lavoro di vincoli, presunzioni, requisiti, che ne hanno reso proibitivo l’utilizzo. È il caso delle collaborazioni e dei titolari di partita Iva (le due fattispecie il più delle volte coincidono), la cui legittimità è stata sottoposta a modalità applicative talmente severe e limitative da scoraggiarne l’impiego anche per non incorrere nella sanzione di dover stabilizzare i rapporti ope legis.
In queste ci siamo imbattuti in un esempio concreto che ci ha permesso di valutare, sul campo, gli effetti negativi di talune nuove regole. La vicenda riguarda l’Aeca dell’Emilia-Romagna, un’organizzazione che raggruppa gran parte dei centri di formazione professionale di matrice cattolica (a partire dall’Istituto dei Salesiani che ha fatto della formazione la propria mission). L’Aeca ha, in regione, ben 350 dipendenti a tempo indeterminato, assunti e retribuiti sulla base delle norme del contratto collettivo nazionale del settore. Oltre a questo organico stabile gli enti associati hanno la necessità di avvalersi di personale assunto in via temporanea (sia come docenti, sia come esperti) da impiegare in attività formative destinate a variare a ogni anno scolastico, in base alle domande per l’istituzione di nuovi corsi ricevute o dei finanziamenti acquisiti.
In sostanza, nel ciclo formativo 2011-2012 l’Aeca aveva assunto altre 240 persone con contratti di collaborazione. Per l’anno 2012-2013, con inizio il 30 settembre, la dirigenza ha dovuto scervellarsi per risolvere i propri problemi nell’ambito dei nuovi vincoli legislativi. Il risultato è stata l’assunzione di 90 persone con contratto a termine. Così gli altri 150 hanno dovuto cercarsi un diverso lavoro. Va da sé che sui cosiddetti terministi si è concentrato un maggior numero di ore, con tutti gli effetti, anche economici del caso. Gli enti, però, hanno dovuto rinunciare, in parecchie circostanze, ad avvalersi di esperti che, per la loro attività autonoma, non erano interessati a un’assunzione di carattere subordinato.
In conclusione, non possiamo negare che taluni cambiamenti possono essere considerati positivi: il lavoro a termine è più tutelato dei rapporti di collaborazione. Ma sono molti di più quelli che hanno perduto un impiego che svolgevano da anni. Nell’attuale situazione dell’economia e dell’occupazione dove sta il danno minore?