I nodi cruciali della tanto discussa legge 194
I casi in cui è permessa l’interruzione volontaria della gravidanza prima e dopo i 90 giorni dal concepimento, il ruolo dei consultori e l’obiezione di coscienza dei medici

La legge n. 194 del 1978 recante “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” introduce previsioni volte a disciplinare l’interruzione volontaria di gravidanza e a depenalizzare l’aborto in forza dell’abrogazione degli articoli 545-555 del codice penale.
L’art. 1 della legge rende espliciti i principi che informano la disciplina dell’interruzione volontaria di gravidanza: ivi si legge, infatti, che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente responsabile e che esso riconosce il valore sociale della maternità, tutelando la vita fin dal suo inizio.
Un altro punto nodale della legge 194 riguarda la definizione dei termini entro i quali è consentito abortire. Nei primi 90 giorni di gravidanza, il ricorso alla IVG è permesso alla donna in presenza di circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute o alle sue condizioni economiche, sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito.
Le fattispecie che legittimano il ricorso all’aborto nel primo trimestre di gestazione sono, a ben vedere, estremamente eterogenee e disorganiche, tali da lasciare un ampio margine di discrezionalità in merito alla decisione di abortire. Resta tuttavia da rimarcare la preoccupazione del legislatore di limitare la facoltà di abortire solo in presenza di cause serie, quand’anche disorganicamente elencate.
Nell’insieme, emerge la tendenza del legislatore a subordinare l’aborto alla difesa della salute o della vita della donna, contro ogni tentativo di fare dell’aborto uno strumento eugenetico (per tacere poi della prassi che vede nello stesso un mezzo di limitazione delle nascite, espressamente vietata dall’art. 1)
Un ultimo aspetto cui si ritiene opportuno accennare riguarda la previsione, accordata al personale medico e sanitario, di sollevare obiezione di coscienza e pertanto di essere esonerato dal prendere parte agli interventi di interruzione volontaria di gravidanza. Anche questa previsione offre un importante aggancio letterale per una interpretazione restrittiva di tutto l’impianto normativo; come è noto, infatti, l’obiezione di coscienza viene consentita a tutela di situazioni di potenziale grave conflitto tra le scelte legislative e i diritti fondamentalissimi della persona.
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