Usciamo dallo statalismo
La neonata legislatura di centrodestra promette un’inversione di tendenza, ma il punto fondamentale è abbandonare lo statalismo e abbracciare quei modelli di gestione della cosa pubblica sperimentati in alcune regioni che hanno al centro l’iniziativa della società

Si preannunciano i primi provvedimenti economici del governo e si torna a parlare di liberalizzazioni. Tra le priorità c’è la riforma del welfare, dove appare urgente uscire da un assistenzialismo che pretende – con un incremento continuo di spesa pubblica – di assicurare a tutti la risposta ai bisogni crescenti di individui e collettività riguardo sanità, istruzione, assistenza, mercato del lavoro.
Lo si può fare evitando il progressivo prevalere di una situazione di tipo “americano”, che esclude dall’universalità del servizio una quota crescente della popolazione?
Per evitare questo rischio occorre innanzitutto smetterla di sprecare risorse come fanno alcuni enti pubblici territoriali, per esempio in sanità, che accumulano debiti crescenti, nella certezza che lo Stato centrale, prima o poi, ripianerà il buco. Ciò può avvenire costruendo un federalismo fiscale “solidale”, caratterizzato da una presa di responsabilità degli enti pubblici nella gestione economica dei servizi del welfare e, nello stesso tempo, da adeguate perequazioni tra regioni ricche e regioni povere.
In secondo luogo, occorre uscire dal regime di statalismo, senza instaurare un mercato selvaggio in settori dove l’ottimo consiste, più che nel massimizzare in modo forzato l’utile da distribuire, nel ri-investire gli utili per rispondere in modo sempre più efficace ed efficiente ai bisogni delle persone.
Liberalizzare tali settori vuol dire perciò aprire a soluzioni quali quelle dei “quasi mercati”.
In essi l’utente è libero di scegliere tra erogatori di servizi pubblici, privati e non profit, aiutato da strumenti di accreditamento e valutazione che informano sulla qualità dei servizi, e supportato finanziariamente da voucher, detrazioni e deduzioni secondo il principio che “i soldi seguono l’utente”, come il buono socio-sanitario che sostiene economicamente chi voglia curare i propri cari a casa.
Particolare rilievo in questo modello hanno le realtà non profit che, per gli ideali che le generano, perseguono il miglioramento continuo del servizio a vantaggio di tutti, mentre gli enti pubblici divengono arbitri di un sistema libero di rispondere alle sollecitazioni degli utenti.
Esperienze di questo tipo sono già avvenute in alcune regioni: si avrà il coraggio di seguire questi esempi virtuosi?
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