GIUSTIZIA/ Politica, magistratura, caso Eluana: il problema di una società afflitta da spirito di parte

- La Redazione

In Italia stiamo assistendo, ormai da anni, ad uno scontro aperto tra politica e magistratura. Esso ha coinvolto in passato, e coinvolge oggi, una molteplicità di attori e di situazioni, col rischio di assumere in molti casi sembianze personalistiche. Ma il problema, come spiega nel suo articolo SANTE POLLASTRO, è più complesso. Il giudice è interprete o creatore della legge? Leggi l’approfondimento di SAVERIO MANCINI, che prende spunto da una recente sentenza (n. 28605/2008) delle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione, di ANTONIO BALDASSARRE, presidente emerito della Corte Costituzionale e di LUCIANO EUSEBI docente di Diritto penale e la testimonianza di SALVATORE CRISAFULLI. GUARDA IL VIDEO dell’incontro “Eluana Englaro: il mistero della vita ed il miracolo dell’accoglienza”, organizzato da CL e Medicina&Persona con Giancarlo Cesana e Claudia Mazzucato

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Stiamo assistendo da ormai diverso tempo a conflitti tra poteri. La cosa non è nuova, ma in questi anni gli spunti per parlarne abbondano. Le caste, i sindacati, l’università La Sapienza, le intercettazioni, i fannulloni, la stampa, i magistrati, i politici… Sono parole che lette così, da sole e senza ulteriori spiegazioni, rimandano a vicende recenti di contrasti e di potere: una parte sociale vuol dire all’altra cosa deve fare e come.

È un fatto che non ci sorprende: se non il conflitto, almeno le divergenze sono un elemento tipico, e in alcuni casi perfino necessario, di una società plurale come la nostra. Quindi, dal momento che viviamo in una società plurale, e vogliamo restarci, con queste divergenze e litigiosità siamo destinati a convivere. Esse trovano origine sia nel modo in cui è concepito lo Stato – la sempre evocata divisione dei poteri dello stato di diritto –, sia in una separazione tra poteri pubblici, chiese, giornali, radio e televisioni, società e famiglie (grandi o piccole che siano), associazioni e singole persone. Questo è lo sfondo generale, tanto generale che quasi è inutile parlarne. Tuttavia c’è un punto in cui tale pluralità non può più restare tale e in cui si deve arrivare a una decisione, una sola. Questo posto è il tribunale. Allora ci chiediamo, cosa succede in tribunale? Cosa succede quando convocata innanzi al giudice non è l’accusa o la difesa, bensì la pluralità?

Per parlarne dobbiamo trasferirci in un tribunale. Solitamente, per risolvere una causa, si parte dalle leggi: il giudice le applica, le adegua alla situazione concreta, ed emette la sentenza. Finita lì, nessun problema. Capita, a volte, che la legge è poco chiara, contraddittoria, così che chi è chiamato a decidere una causa si trovi innanzi a una fessura nel dato normativo, a una indecidibilità formale del problema giuridico. Allora il giudice è più creativo; tuttavia, una certa compattezza della società gli consente tale creatività, perché, pur nella creatività, egli sintonizza la sua decisione con quegli elementi che tengono unita la società di cui anch’egli è parte, così risolve la controversia e allo stesso tempo non impone la sua visione particolare, in quanto applica quella generale.

Ma può accadere, infine, che una lacuna nel diritto non sia dovuta solo a un problema di leggi mal redatte, ma ad un contrasto interno e ben profondo della società. Il punto è rilevante perché se dentro la società, su determinati problemi, ci sono forti correnti contrapposte e un giudice può decidere a favore dell’una e dell’altra, si pongono dei rischi per la società stessa; si potrebbe dire che si apre una questione di laicità, prendendo tale termine in senso letterale. Laicità non è parola che riguarda solo Papi e Presidenti: così la usano alcuni, ma in verità laicità è parola che riguarda il popolo. Essere laici significa rispettare il popolo. Allora, nel caso prospettato, il giudice può decidere in maniera faziosa e non in maniera neutra, laica, bensì secondo il suo interesse, facendo uso di un potere che nessuno gli ha dato.

A questo punto vi sono due scenari possibili. Prendiamo in considerazione il primo: la società è divisa, ma almeno la legge è chiara. Insomma, nonostante la spaccatura tra i cittadini, il Parlamento ha prodotto una legge chiara. Tuttavia il giudice, simpatizzando per le idee della parte sconfitta in Parlamento, decide contro la legge e riafferma le tesi di quella determinata parte. Tale ipotesi è così imbarazzante, seppure molto attuale, che non merita neppure di essere troppo considerata: ad ogni modo, in tal caso il giudice ha sbagliato, può succedere, e una corte di livello superiore rimetterà le cose a posto annullando la sentenza obbrobriosa. Nello stato di diritto la legge viene prima del giudice, e se il giudice la scavalca viola il suo compito.

Vi è poi un secondo scenario: ossia che alla spaccatura della società su un determinato tema corrisponda un’incapacità del Parlamento a legiferare su di esso. Il magistrato, così, può giocare tra le pieghe di questa lacuna e diventare creativo. Rispetto all’ipotesi appena considerata almeno non viola la legge del Parlamento; egli, però, cosa sta facendo? Si sta comportando come nell’ipotesi vista all’inizio, quando il giudice poteva essere creativo grazie al contesto sociale unito da cui traeva ispirazione per la sua creatività? No, perché in questo secondo caso l’operato fantasioso del giudice non affonda le radici in una società compatta, ma in una parte di essa. Si tratta di un atto di presunzione del magistrato il quale spera così di divenir legislatore e, ancor peggio, pacificatore. È come se dicesse, “non sapete mettervi d’accordo? Posso farlo io”. Però in tal modo egli, di fatto, sceglie una parte, una soltanto, non si pronuncia né per la legge, né per la maggioranza, ma per quell’idea che piace a lui, e non pacifica un bel niente, ma, anzi, esacerba il contrasto violento e l’incomprensione, minando la credibilità della legge e dei giudici, non più visti come neutri, ma come strumento per imporre le idee. Una parentesi: non dimentichiamo quello che purtroppo ci insegnano le relazioni internazionali, ossia che dopo il diritto non c’è il nulla, ma c’è la guerra; l’uomo di diritto ha una responsabilità grande e se la usa male può far più danni che altro. Se usa male le leggi e nasconde l’arbitrio dietro la retorica formale, crede di risolvere un dubbio interpretativo e riannodare i pezzi di una società divisa, ma si sbaglia: al contrario, egli sconcerterà, esaspererà i toni, creando più tensione che quiete.

Le camere di un tribunale sono l’ultimo dei luoghi in cui tali cose devono accadere. Siamo in una società plurale. Nel libero confronto delle idee prima ci sono una vita condivisa ed il confronto aperto. Poi c’è il Parlamento, il quale riassume e rappresenta la nostra società. Poi, infine, tocca ai tribunali. Cos’è il diritto, se non una politica che è riuscita? Esso viene dopo tutto, alla fine. Non può venire prima. Non può venire prima delle leggi, e neppure prima della società. Allora il diritto è inutile? No, è utilissimo, perché quando un singolo si perde e diventa nocivo, tocca al giudice fermarlo e riportarlo lungo quel sentiero che, grossomodo, in molti altri stanno seguendo. Il sentiero però non possono farlo i giudici: tocca a noi farlo, camminando e, dietro a noi, alla politica.

(Sante Pollastro)







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