L’ultima telefonata era stata per i suoi genitori. Un messaggio disperato, una richiesta fatta con le ultime forze di chi ormai sa di non potere più nulla contro un verdetto già scritto. Contro di lei il tribunale di Teheran aveva emesso una sentenza atroce e inappellabile: la morte attraverso l’impiccagione. Delara non voleva morire.
L’esecuzione della ragazza è avvenuta a sorpresa venerdì nel carcere di Rasht, nel nord dell’Iran, anche se il capo dell’apparato giudiziario, ayatollah Mahmud Hashemi Shahrudi, aveva annunciato il 19 aprile scorso un rinvio di due mesi del compimento della sentenza. Delara (nella foto) è stata uccisa per un omicidio – di cui le cause e le dinamiche pare non siano state ancora del tutto chiarite – commesso quando aveva 17 anni. Non solo. La pittrice iraniana di soli 23 anni è stata condannata pur avendo accettato le condizioni poste dalla famiglia della vittima per concedere il perdono che le avrebbe salvato la vita: dichiararsi colpevole e cambiare avvocato.
Quel che è ancora più grave è quanto si apprende dalle fonti internazionali, le quali raccontano che a mettere personalmente la corda intorno al collo di Delara è stato un figlio della donna per la cui uccisione la pittrice è stata condannata. La ragazza è stata messa a morte senza che nemmeno il suo avvocato venisse informato, come invece vorrebbe la legge. Tutto questo è avvenuto proprio quando Ahmadinejad ha annunciato pubblicamente di avere un pacchetto di «nuove proposte» da presentare al gruppo dei «5+1» negoziatori.
Si cambia paese ma lo scenario non è molto diverso. Siamo questa volta nel Laos, dove una ragazza britannica di origini africane, Samantha Orobator-Oghagbon di soli 20 anni, da nove mesi in carcere con l’accusa di spaccio di droga, rischia di essere fucilata per aver cercato di contrabbandare 680 grammi di eroina, un quantitativo oltre il quale la legge laotiana prevede la pena di morte. La prossima settimana la ragazza affronterà il processo davanti a un tribunale.
La difesa dei diritti umani è uno dei punti sui quali l’Unione europea vuole avere un ruolo di leadership mondiale. L’ultima legislatura del Parlamento europeo, che ormai sta volgendo al termine, ha puntato molto sul controllo e sul dialogo delle comunità di molti paesi del mondo, portando noi rappresentanti del Parlamento europeo verso un incontro con i più importanti leader di queste nazioni. L’Unione europea si è quindi battuta fortemente perché venisse condannata la negazione dei diritti umani e civili nel mondo.
In particolare la nostra azione politica ci impegnati su più fronti: contro la pena di morte in Nigeria, contro le uccisioni sistematiche di civili in Somalia, contro il protrarsi della detenzione di prigionieri politici in Birmania, per garantire i diritti umani in Cambogia, Laos e Vietnam, contro la mancata tutela dei diritti umani dei bahá’í in Iran, contro la mancata tutela dei diritti umani a Oaxaca in Messico, contro la mancata tutela dei minori in Bielorussia, per la difesa della Democrazia in Cina. La lista potrebbe continuare ancora.
Appare allora evidente come l’Unione europea non sia solo l’istituzione che si occupa di emanare direttive sulla curvatura delle banane, ma uno strumento di controllo internazionale che mira a far si che storie come quella di Delara o Samantha non si ripetano. Non è allora fuori luogo ricordare come questi temi siano iscritti sin dall’inizio della storia del nostro cammino europeo, quando i nostri padri fondatori a quelle solenni dichiarazioni fecero seguire decisioni innovative e coerenti.
Oggi dobbiamo rilanciare l’identità culturale europea nel panorama mondiale, per adeguare la presenza dell’Unione alle responsabilità politiche a cui è chiamata. Vogliamo che l’Europa punti a rafforzare l’alleanza con gli Stati Uniti, fondandola sui comuni valori di libertà e democrazia dell’Occidente. Un’Europa forte e attiva in politica estera, è certamente in grado farsi garante della tutela della vita umana e della dignità della persona. Essere forte e attiva vuol dire saper intervenire in maniera rapida ed efficace perché non sia più consentito a nessun paese di rifiutare impunemente il riconoscimento dei diritti umani.