Non manca molto al D-day, al giorno X, al momento della verità e quanta altra retorica si vuole utilizzare per descrivere l’appuntamento delle primarie e del congresso del Partito democratico. Per carità, c’è ben altro di epocale in Italia o nel mondo che sta accadendo e difficilmente questo sarà un evento di svolta nella politica italiana. Anche perché, come era prevedibile, la caduta dell’Impero sarà opera dell’Imperatore stesso, di quel Berlusconi che indiscutibilmente comincia a vivere il proprio declino personale e politico. Gli sherpa si preparano alla successione e al riposizionamento ed è questo il volano principale per la prossima fisionomia del Pd.
Vero è che, con le primarie e il congresso, il Partito avrà finalmente un proprio leader (si spera il più possibile stabile e duraturo e difficilmente “suicidabile” dai suoi stessi colleghi di partito). I due candidati principali (le chances di Ignazio Marino sono praticamente nulle), Franceschini e Bersani, si stanno confrontando a sportellate su un mucchio di dettagli organizzativi, dal tesseramento alla struttura dei circoli e dei coordinamenti regionali, provinciali e comunali.
Sulla sostanza della visione strategica del partito il dibattito è talmente povero che è facilmente riassumibile: Bersani vuole un Pd che sia perno di una coalizione di maggioranza, larga da Sl all’Udc, con Di Pietro a intercettare una parte di elettorato chiassoso. Franceschini ripropone il refrain della vocazione maggioritaria, una prospettiva perdente nelle attuali condizioni.
Perché perdente? Perché senza una precisa identità, chiara ai dirigenti come agli iscritti o agli elettori potenziali (quelli da conquistare e i più importanti in assoluto), un partito progressista non ha alcuna speranza di sfondare il 25%. Se fosse un partito di sinistra, il Pd sarebbe destinato a perdere in partenza (come ovunque altrove nel mondo); se fosse un partito di centro-sinistra troverebbe difficoltà a conciliare le troppe anime che lo popolano.
E qui sta il punto di un dibattito che potrebbe essere sostanziale se fosse accompagnato da giudizi netti. E due leader indiscussi del Pd lo hanno fatto, ciascuno dalle proprie posizioni. Da un lato Rutelli, che ha ribadito senza mezzi termini che se il Pd continua a definirsi "la sinistra", resterà un partito perdente, un partito del secolo scorso insomma. Dall’altro D’Alema, che vede nel tentativo di eliminare il trattino tra centro e sinistra l’obiettivo più importante.
La battaglia è però impari, visto che D’Alema può contare sulla vittoria di Bersani al Congresso, prevista da tutti i bookmakers; l’appoggio dell’ex leader della Margherita a Franceschini è lasco e poco convinto. Il che fa prefigurare interessanti, nuove manovre al centro. Buon voto!