SCENARIO/ Fini e governo tecnico, prove di “collasso” istituzionale
Alla grande confusione che regna all’interno della maggioranza, si accompagna un momento di incertezza costituzionale. Il commento di LORENZA VIOLINI

Alla grande confusione provocata dalla secessione dei finiani dalla coalizione con cui si erano presentati alle elezioni, si accompagna un momento di incertezza costituzionale dovuta, secondo molti, alle inadeguatezze della Carta, non più in grado di controllare i processi di una democrazia che è stata oggetto in questi ultimi due decenni di profonde trasformazioni sia nel sistema dei partiti sia sul piano della legislazione elettorale, con effetti di grande problematicità sull’insieme della forma di governo.
È questo che si intende quando si parla di Prima, di Seconda e ora – con un notevole tasso di trasformismo – di Terza Repubblica: passaggi istituzionali da un regime all’altro determinati, per l’appunto, dal cambiamento nel sistema dei partiti e dalla legge elettorale, pur nella perdurante vigenza della forma di governo parlamentare prefigurata nel 1948 e mai modificata.
Così, mentre i commenti e le ipotesi si susseguono, con l’unico sconfortante effetto di alimentare la fumosità del momento, pochi sembrano accorgersi di una situazione a dir poco paradossale creatasi all’indomani della prolusione umbra del Presidente della Camera e del suo accorato appello alle dimissioni del Capo del Governo, sanzionato dalla minaccia del ritiro dei “propri” Ministri dalla compagine governativa.
Il paradosso consiste nel fatto che proprio il Presidente di una assise parlamentare, cui spetta per mandato popolare di dare o togliere fiducia al Governo, non esita a proporre una procedura sui generis per dare avvio alla crisi di governo, quella modalità “extraparlamentare” di abbattere un esecutivo senza che il Parlamento ne venga coinvolto a lungo stigmatizzata dai costituzionalisti nella Prima repubblica e ora tornata alla ribalta.
Insomma, è lo stesso presidente dell’Assemblea parlamentare che propone di esautorare il Parlamento escludendolo dai processi di conferimento e di revoca della fiducia. Non un buon segno per la nostra presunta Terza repubblica, che rischia di divenire una lotta tra bande. E, a ben vedere, si tratta di un paradosso al quadrato visto che Fini, qualche settimana prima, aveva – e anche a ragione – rivendicato la natura istituzionale della sua carica per rimandare al mittente la richiesta di dimissioni avanzata dai suoi ex compagni di partito.
Ora, per uscire dall’empasse, un’espressione ricorrente è quella del cosiddetto “governo tecnico”, quasi che l’aggettivo – preponderante sul sostantivo – sia in grado di disinnescare il gravissimo problema istituzionale che si porrebbe con un cambio di coalizione (ma anche, a ben vedere, di leader) a dispetto del chiaro mandato elettorale ricevuto dal premier e dalla coalizione che si era impegnata a sostenerlo.
Andare verso un governo tecnico, quale che ne sia la composizione e, di conseguenza, quale che sia il grado di gravità dello strappo al mandato ricevuto in sede elettorale, comporta azzerare la transizione che aveva caratterizzato la Seconda delle nostre repubbliche. Ogni transizione, si sa, vive di luci e di ombre, di elementi che pian piano si chiariscono e di altri che persistono nel restare oscuri.
Nelle scorse elezioni, se molto restava oscuro, era invece apparso chiaro che il sistema politico stava seppur faticosamente confluendo verso due poli, più o meno omogenei, ma che disponevano comunque di quel tanto di compattezza per identificare il proprio candidato premier da sottoporre all’elettorato.
Se così pareva, la crisi dei finiani ha cancellato ogni illusione: il nostro sistema resta parcellizzato, incapace di creare coalizione e di dare certezze all’elettorato, almeno sull’identità del premier. Raggiunto il potere, con qualsiasi mezzo, la gestione dello stesso non riconosce più la sua Grundnorm, la sua norma fondamentale, quella di rispettare – pur con tutta la discrezionalità politica inevitabile in un sistema di governo di società complesse – il mandato popolare. E se la crisi ha minato la Seconda repubblica, il governo tecnico ne sanzionerà la fine suggerendo che la politica, fondamentale per una democrazia basata su libere e periodiche elezioni, non è più in grado di esprimere nulla, nemmeno un capo di governo.
Per fermare questa deriva, se governo tecnico dovrà essere, allora che sia il premier, con un sussulto di orgoglio, a ricoagulare intorno a sé un nucleo così credibile di personalità politiche – ma anche fortemente capaci e affidabili (e in questo senso e solo in questo senso “tecniche”) – da ridare linfa a un sistema che rischia di portare al baratro l’intero Paese.
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