SCENARIO/ 2. Barcellona: i guai di un’Italia bloccata

- Pietro Barcellona

La società italiana, secondo PIETRO BARCELLONA, è colpita da due virus: berlusconismo e giustizialismo, come dimostra il dibattito dei giornali di questi giorni

BerlusconiTribunaleMilanoR400-1 Berlusconi in tribunale

Credo che bisogna meditare a lungo sulle parole di Bagnasco per cercare di coglierne il senso oltre la congiuntura caotica che stiamo attraversando. Le sue parole sono importanti perché spingono a fare una diagnosi del momento attuale e a porsi da un punto di osservazione che non implichi necessariamente uno schierarsi da una parte o dall’altra, non tanto per restare ancorati al pilatesco cerchiobottismo, ma per cogliere in profondità le malattie gravi che affliggono ormai da anni la nostra convivenza civile e politica.

C’è indubbiamente nelle parole di Bagnasco una rappresentazione drammatica dello sgomento della grande maggioranza degli italiani di fronte da una parte allo scenario inquietante di un capo del governo che, oramai senza freni e senza regole, spara a zero su tutte le istituzioni del Paese e, dall’altra, all’ossessivo tentativo dei suoi avversari di farne il simbolo di ogni male della Repubblica.

Certamente mai come in queste ultime settimane la sensazione di un degrado irreversibile del dibattito pubblico ha colpito la capacità del senso comune di trovare una qualche ragione plausibile per spiegare quello che sta accadendo. Mai la vita privata del premier era stata squadernata sotto gli occhi di tutti nella sua ottusa volontà di perseguire ogni forma di piacere privato con disprezzo della dignità delle persone coinvolte nelle carnascialesche feste delle sue ville. Mai era accaduto di vedere un capo di governo intrigato con compagnie acquiescenti e complici in spettacoli in cui la figura femminile e quella di un anziano signore sono presentate come una miserabile complicità fatta di soldi e favori.

Questo spettacolo, tuttavia, è l’esito estremo di un virus che è penetrato nella società italiana dal 1994 in poi con la famosa scesa in campo di Berlusconi che si candidò a governare il Paese non come il leader politico che rappresentava un’altra visione della res pubblica, ma come un proprietario imprenditore che esprimeva una concezione patrimoniale della politica e si proponeva come padrone assoluto di un partito che non aveva niente in comune con le analoghe esperienze, ma si presentava come una diramazione aziendalistica del suo potere di capo. 

Quello che non è stato colto subito nel 1994 – e che è il vero tema di cui bisognerebbe occuparsi – è che per la prima volta in una democrazia occidentale il leader politico non era espressione di un gruppo politico e di una dialettica attinente ai profili istituzionali della vita pubblica, ma  l’esclusivo proprietario di un patrimonio nel quale la logica privatistica del comando d’impresa produceva soltanto rapporti di fidelizzazione.

Nasce così questo strano animale che dichiara di essere un partito politico, mentre è in realtà un’azienda privata che vuole conquistare il potere pubblico attraverso uno stuolo di dipendenti che possono essere licenziati in tronco e la cui vita è interamente nelle mani del dominus. In questi anni, a partire dal ’94, abbiamo in realtà assistito all’affermarsi inedito di una concezione patrimoniale della politica in cui il sistema decisionale su ogni questione è affidato alla onnipotenza del dominus che culturalmente non riesce neppure a immaginare l’articolazione di un qualche dissenso all’interno della sua stessa maggioranza.

Ciò che oggi colpisce il senso comune è certamente l’accanimento fanatico con il quale i fedeli del capo, specialmente le donne, reagiscono istericamente a ogni tentativo di portare i conflitti sul terreno dell’argomentazione razionale. Non ci sono collaboratori politici di Berlusconi, ma seguaci fanatici che si oppongono in modo stereotipo con un linguaggio gridato, quasi sempre privo di contenuti, a ogni tentativo di riflettere sui problemi reali del nostro Paese.

Non si vuole con questo affermare, giacché sarebbe ingeneroso, che tutto il personale politico, dai ministri ai coordinatori, sia fatto di sudditi devoti che hanno portato persino il loro cervello all’ammasso di una grande messa in scena avente come unico protagonista il proprietario di un’azienda, ma soltanto spingere a riflettere sul modo perverso in cui la logica padronale e patrimoniale della politica ha finito col colonizzare anche l’intelligenza e le capacità critiche di tutti coloro che costituiscono la corte di un nuovo padrone.

È proprio da questa logica che deriva la desertificazione della vita politica che non riesce a proporre agli italiani alcuna seria differenza di programmi e contenuti sulle questioni più brucianti della vita quotidiana. Né basterebbe obiettare che in questi anni si sono pure realizzate delle riforme come quella della scuola e dell’università, giacché quasi tutte sono state il frutto di puri calcoli contabili senza alcun vero progetto culturale e senza alcuna capacità di coinvolgere i destinatari in una seria riflessione sul miserevole stato delle cose esistenti in tutti i campi della vita pubblica.

Per queste ragioni Berlusconi è certamente la causa di una profonda malattia sociale che ha neutralizzato ogni esperienza di autentica partecipazione politica e che ha rappresentato invece la faccia pubblica del consumismo sfrenato e della competizione egoistica fra i cittadini di una comunità che, come ricordava Bagnasco, ha perso il senso di ogni comune destino.

Paradossalmente la concezione patrimonialistica e aziendalistica della politica corrisponde al progressivo attenuarsi di ogni visione del bene comune e di ogni ricerca di senso capace di muovere gli italiani verso modelli più autentici e consapevoli di rapporto con se stessi e con gli altri. L’epoca di Berlusconi è sotto questo profilo un’epoca di povertà e volgarità che occorre fermare al più presto per impedire che l’intero Paese sia travolto da un declino mentale e antropologico sempre più vicino alla soglia di irreversibilità.

Un giudizio così severo non può tuttavia condurre all’identificazione di Berlusconi con il capro espiatorio il cui sacrificio consente un immediato ripristino delle antiche virtù repubblicane.
Come Bagnasco ha sottolineato, è certamente un’anomalia italiana il ruolo improprio  che la magistratura inquirente ha finito con l’assumere nella vita collettiva.

Non è solo l’evidente sovrabbondanza di indagini sulla vita privata di Berlusconi nell’ultima iniziativa della procura milanese a colpire chi prova a mettersi in una posizione di distanza dal brutale scontro politico in atto.

Certo, personalmente non posso non chiedermi come mai in questi anni a Berlusconi siano stati contestati quasi tutti i reati del codice penale: dalla complicità mafiosa con i poteri criminali, che si muovono sotto la superficie della nostra vita pubblica, alla truffa e alla corruzione di magistrati.

Se si prova a ricostruire le vicende giudiziarie che hanno provato a mettere sotto accusa Berlusconi, non si può non restare colpiti dalla eterogeneità dei capi di accusa che di volta in volta sono stati messi in campo e che hanno sviluppato ogni volta campagne pubbliche di inaudito accanimento.

È certo singolare che la stessa persona sia stata oggetto di campagne di stampa per presunti reati commessi nel corso della propria attività sia sul terreno della partecipazione diretta o indiretta alla azione eversiva della criminalità mafiosa, sia per aver compiuto truffe economiche di grandi dimensioni ricorrendo alla corruzione di magistrati e influendo illecitamente sui processi che riguardano e riguardavano la sua attività di imprenditore.

Se si considera che tutti questi capi di accusa sono stati immediatamente utilizzati dalla stampa e offerti al pubblico ludibrio attraverso trasmissioni “specializzate” nell’imbastire processi mediatici nei confronti del premier, non si può non restare colpiti dalla costanza dell’azione giudiziaria mediatica volta a delegittimare sotto ogni aspetto la figura del capo del governo.

Che anche questo aspetto della congiuntura politica vada oggi esaminato è un problema che è al di là di ogni pacata riflessione sui rapporti fra giustizia e politica, fra magistratura e società.
Si tratta, infatti, dello spostamento della vita collettiva dal terreno degli interessi reali delle varie componenti del Paese alla spettacolarizzazione processual-mediatica di ogni evento, che può dar vita a quella sete giustizialista che a partire da Tangentopoli ha pervaso lo spirito pubblico.

Come la concezione patrimoniale della politica è un virus terribile e devastante, anche l’identificazione del conflitto politico con il processo penale, che trae origine dalla ispirazione dipietrista di Mani pulite, conduce certamente a una degradante povertà della discussione pubblica. La riduzione della vita politica a mero conflitto tra governo e pubblici ministeri, così come viene presentata sulla scena mediatica, è una deformazione devastante del conflitto politico che dovrebbe invece mettere in campo diverse opzioni sulle questioni economiche, sociali ed etiche del Paese.

Per effetto dell’iniziativa di Marchionne, in Italia sta mutando radicalmente il sistema delle relazioni industriali, il rapporto fra capitale e lavoro. Tutto ciò che ha sicuramente una rilevanza enorme per il futuro del Paese e delle nuove generazioni è passato all’ultimo posto rispetto alle feste di Arcore e alle furibonde e indecenti intromissioni di Berlusconi nelle trasmissioni televisive.

In fondo, il giustizialismo è l’altra faccia della concezione patrimonialistica della politica. I magistrati non sono e non possono essere una squadra di giustizieri  a cui è demandata ogni tipo di lotta contro la mafia, la criminalità, la corruzione, le quali non saranno mai sconfitte senza il coinvolgimento attivo di grandi parti della società e delle sue forze.
I magistrati non sono chiamati  a lottare contro i mali collettivi, ma a perseguire e condannare i singoli autori di reati secondo le ipotesi previste dal codice penale. Il giudice è giudice del caso e non giudice del sistema e se questo confine non viene ripristinato, si corre il rischio di una involuzione dell’intera società.

Berlusconi va sconfitto sul terreno della sua concezione padronale riuscendo a far capire agli italiani che lo votano che essi esprimono bisogni reali, ma in una forma distorta e pericolosa,  consegnando il Paese all’imbarbarimento generale. La logica plebiscitaria che si esprime nella domanda “o con me o contro di me” non può che sfociare in un primitivismo verbale fatto di insulti e di vero e proprio turpiloquio.

La posta in gioco della congiuntura attuale va dunque guardata in una prospettiva più ampia, sfuggendo al ricatto che o si è con Berlusconi o con i pubblici ministeri, e cercando una via di uscita veramente democratica, nel rispetto della nostra tradizione costituzionale.

La nostra sta rischiando di non essere più una democrazia perché non c’è più lo spazio pubblico in cui si può veramente contendere senza delegittimare e demonizzare il proprio avversario.

Personalmente sono convinto che, al punto in cui siamo, Berlusconi debba uscire di scena perché è in ogni modo dannoso per il futuro dell’Italia, ma sono anche convinto che questo non possa accadere usando ogni mezzo, giacché le modalità con cui avverrà questo ripristino dell’ordine civile sono decisive anche per l’esito che ci dobbiamo augurare. Stiamo vivendo un vero e proprio stato di eccezione che persistendo non può che essere catastrofico. È necessario andare controcorrente e riproporre il tema delle regole e dei principi fondanti la convivenza come il primo obiettivo da perseguire.







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