CAOS PD/ Parisi: l’Ulivo oggi è Renzi, il partito della Bindi non esiste

- int. Arturo Parisi

Rosy Bindi, in polemica con Renzi, è tornata ad evocare la parola scissione, insieme a quella dell'Ulivo. Ma per ARTURO PARISI, fondatore dell'Ulivo, ad impersonarlo oggi è proprio Renzi

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La vittoria dell’astensione alle ultime regionali, la partita del Jobs Act, le riforme incartate, ancor di più il progetto di un non meglio precisato “partito della nazione” hanno fatto crescere nella minoranza del Pd la voglia di una sinistra alternativa, la meno renziana possibile. I suoi esponenti — Fassina, Civati, Cuperlo, D’Attorre, Casson e altri — hanno spesso pronunciato la parola “scissione”, in verità più per evocarla e quindi per escluderla, che per passare alle vie di fatto. Ha fatto eccezione Rosy Bindi, presidente del Pd dal 2009 al 2013 e attuale presidente della Commissione parlamentare antimafia, in una recente intervista al Corriere della Sera dal titolo: “Bindi: si torni all’Ulivo o noi usciamo”. Il sussidiario ne ha parlato con Arturo Parisi, fondatore dell’Ulivo nel 1995 insieme a Romano Prodi, poi fondatore dei Democratici nel ’99, sempre con Prodi, e ministro della Difesa nel suo secondo governo.

Parisi, Rosy Bindi ha detto: “Se il Pd torna a essere il partito dell’Ulivo, che unisce e accompagna il Paese, non ci sarà bisogno di alternative. Ma se il Pd è quello di questi ultimi mesi, è chiaro che ci sarà bisogno di una forza politica nuova”. Che cosa ne pensa di questa affermazione?
Che non posso condividerla. E lo dico perfino con dispiacere. Non è infatti mai esistito un “partito dell’Ulivo” diverso dal Pd al quale si possa “tornare”. Nè potrebbe essere considerata ulivista l’idea di frammentare il centrosinistra dando luogo a nuove divisioni. In quella che ricordiamo come la stagione dell’Ulivo, il suo segno rappresentò infatti un sogno per i più, ma solo per pochi di noi un disegno compiuto in forma di partito. Né come un partito parte del centrosinistra, e men che mai come il tutto.

Allora in che modo? Ci spieghi.
Per la maggior parte dei dirigenti, compresi quelli che oggi si dicono ulivisti, l’Ulivo chiamava in causa solo la qualità e la natura del rapporto che legava tra loro i partiti della coalizione di “centro trattino sinistra”. Esclusi i pochi ulivisti puri, tra la quasi totalità dei dirigenti della coalizione, tutti identificati con i rispettivi partiti più che con la coalizione, a lungo prevalsero quelli che pensavano l’Ulivo solo come un “cartello elettorale”, imposto dalla legge maggioritaria, necessario per il tempo delle elezioni, poco più di un taxi per arrivare a Roma, ma poi affidato per la sua successiva sopravvivenza al cangiare delle valutazioni e delle relazioni tra le forze politiche in parlamento. C’erano poi altri che pensavano invece questo legame come “un accordo di programma” stretto avanti agli elettori per tutto il tempo, ma non oltre il tempo di una legislatura.

E lei dove stava?

C’era infine una minoranza che pensava il loro legame costruito attorno ad un “progetto politico” di lunga durata e definito a tempo indeterminato, e perciò animato da una tensione unificante che attenuava e relativizzava i confini interni tra i partiti e in particolare quello rappresentato dal trattino che a lungo separò nel lessico politico il centro dalla sinistra. E alla testa per determinazione, ma in coda per consistenza la pattuglia di ulivisti puri che non smise mai di battersi per l’unità del centrosinistra come espressione, garanzia e motore di una democrazia governante.

Quindi?
È nel confronto tra queste posizioni che crebbe e vinse l’idea di dar vita ad un partito, che traducesse in modo stabile e in una forma unitaria il progetto ulivista come partito unico del campo di centrosinistra in una democrazia bipolare. Se un partito dell’Ulivo è perciò esistito, questo partito è quello che fin dalla sua primitiva ideazione si è chiamato e dalla sua fondazione si chiama Pd. Certo, passare da un cartello elettorale di partiti, prima ad un accordo di programma di legislatura tra partiti, e infine ad una coalizione di progetto, non è stata una passeggiata. Ed anche all’interno della forma partitica unitaria nella quale questo processo è sfociato di certo lungo tutti i sei anni che hanno separato la fondazione del Pd dalla segreteria Renzi sono sopravvissute le distinzioni e le spartizioni secondo la provenienza partitica. Ma il processo di scioglimento delle vecchie identità e organizzazioni non si è mai arrestato, e correlativamente è avanzata la fusione tra esse.

Questo per l’Ulivo passato al quale si pensa di tornare.
Non parliamo per il minacciato futuro. La nascita di un nuovo partito a fianco del Pd sarebbe perciò quanto di più lontano dallo spirito dell’Ulivo. Di certo se il nuovo partito fosse collegato al Pd in una alleanza di centrosinistra. Ancora di più se a lui in contrapposto in uno schema non più bipolare.

Romano Prodi ha commentato così le parole della Bindi: “Ho combattuto per l’Ulivo tanti anni perché pensavo fosse la creazione di un sistema bipolare che unisse diversi riformismi: ci ho dato metà della mia vita, vuole che non lo pensi?”. E’ d’accordo con lui?
Assolutamente. È per questo che ritengo sbagliata l’idea di tornare al passato attraverso la nascita di nuovi partiti. Altra cosa è invece l’incontro, e il confronto tra più posizioni all’interno dello stesso partito, e la preoccupazione che tutte le voci possano parteciparvi e prendere la parola.

In un recente convegno D’Alema ha detto che l’Ulivo è stata una classica formazione di centrosinistra che ha attuato delle politiche liberiste. Che cosa ne pensa?

Onestamente per capire avrei bisogno di ulteriori elementi. Politiche liberiste è una locuzione nella quale la storia dell’Ulivo sta stretta e a disagio.

Renzi dice di avere finalmente realizzato la “vocazione maggioritaria”, formula cara a Veltroni (il quale però non riuscì). Che differenza c’è tra il partito di Veltroni e quello di Renzi?
“Vocazione maggioritaria” è quella che definisce qualsiasi partito che, proponendosi da solo come una delle due alternative in competizione per il governo del Paese, punta, nel rispetto del metodo democratico, a raccogliere la maggioranza dei consensi elettorali. Dire vocazione significa tuttavia riconoscere questo obiettivo come una prospettiva e non come un risultato a portata di mano. Disse bene perciò Veltroni per descrivere il progetto costitutivo del partito sul piano strategico. Lo stesso non si può dire sul piano tattico. La misura troppo inferiore alla pretesa maggioritaria registrata dal partito dimostrò infatti la natura velleitaria del suo disegno nell’immediato. 

E Renzi, invece?
Dire che Renzi ha già oggi realizzato l’obiettivo mancato da Veltroni è prematuro. Di certo alle ultime europee Renzi ha risollevato il partito dal fossato nel quale lo aveva portato Bersani non solo in percentuale ma in voti assoluti. Ma ripetere con Veltroni che il Pd si sente ancora “vocato”, non autorizza ancora a scambiare questa chiamata con una risposta.

Fino a che punto il Pd di Renzi ricalca il modello dell’Ulivo?
Il Pd di Renzi come quello di Veltroni si muove nel solco dell’Ulivo perché puntando a raccogliere la maggioranza degli italiani rivolge a tutti la sua proposta di governo. Non è perciò riconducibile nel perimetro del partito di classe del passato, comunque lo si definisca: operaio, dei lavoratori, o del lavoro. Come partito del centrosinistra, pur andando oltre questo perimetro, esso non può correre tuttavia in alcun modo il rischio di tagliare fuori dalla sua proposta le fasce più disagiate della popolazione, lasciando ad altri la loro rappresentanza o peggio ancora spingendole fuori dalla politica. Al di là delle forme politologiche, l’Ulivo ha posto sì le premesse di un partito unitario che interpretasse uno dei due poli di una democrazia bipolare, ma del polo di centrosinistra, non di un polo qualsiasi. Dire partito piglia-tutti significa dire un partito che si rivolge a tutti, ma a partire da una propria precisa proposta, connotata in termini sociali e culturali che assume a riferimento in modo non esclusivo, ma tuttavia prioritario, la speranza, l’ansia, la sofferenza, e le domande di una parte della società.

Di che cosa ha bisogno oggi il centrosinistra in Italia?

Anche se può sembrare una battuta, direi innanzitutto della vitalità del centrodestra. Questo è il problema più urgente e rilevante di questo momento. Certo di un centrodestra con quale condividere le regole e i valori che ogni società deve sentire comuni. Ma non di meno di un centrodestra qualitativamente credibile e quantitativamente plausibile che competa con lui per il governo, di un centrodestra capace di mettere in campo una proposta alternativa. Ripeto. Nel crepuscolo del berlusconismo, solo una reale ripresa della dialettica può difendere il partito dal rischio di velenose vittorie che ci riporterebbero in una democrazia bloccata, o ci esporrebbero a sconfitte prodotte dalla perdita di contatto con quella parte di società che il partito non può lasciare senza rappresentanza.





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