Nell’iter di approvazione della legge elettorale, si è da giorni scatenata un’aspra battaglia sulla possibilità di introdurre “quote di genere”, cioè norme che garantiscano una equilibrata presenza di donne e uomini nell’Assemblea legislativa (che diverrebbe unica, se si seguisse l’iter riformatore annunciato).
Sorprendono i toni e i termini della polemica, dal momento che, rispetto alla mancata introduzione di norme antidiscriminatorie nella legge elettorale nazionale, in occasione dell’approvazione del cd. Porcellum (il sistema elettorale dichiarato incostituzionale con decisione n. 1 del 2014 della Corte costituzionale), molta strada è stata fatta, in Parlamento, e non solo.
È proprio il Parlamento, nella scorsa legislatura, ad avere assunto il tema della presenza femminile come aspetto qualificante delle proprie scelte: così, sono state introdotte norme volte a conseguire l’equilibrio di genere nel mondo economico apicale, con la legge n. 120 del 2011, che tutta Europa ci invidia (norme molto forti, che comportano sanzioni economiche fino ad arrivare allo scioglimento dei cda per le società quotate in borsa e partecipate pubbliche) e sono state adottate misure antidiscriminatorie nell’ambito degli enti locali, con norme incidenti sui sistemi elettorali (per i quali è stata prevista la cd. doppia preferenza di genere) e sulla composizione delle Giunte locali (per le quali è stata sancita come necessaria la presenza di entrambi i sessi).
Dal canto suo la giurisprudenza amministrativa ha sviluppato una serie di principi forti, annullando giunte monogeneri o fortemente squilibrate, sulla base del principio secondo il quale “organi squilibrati nella rappresentanza di genere … oltre ad evidenziare un deficit di rappresentanza democratica dell’articolata composizione del tessuto sociale e del corpo elettorale … risultano anche potenzialmente carenti sul piano della funzionalità, perché sprovvisti dell’apporto collaborativo del genere non adeguatamente rappresentato” (così sent. Tar Lazio n. 6673 del 2011; similmente anche Tar Lazio, sent. n. 633 del 2013, che individua in una quota pari almeno al 40 per cento la misura minima di rappresentanza di ciascun genere nell’ambito delle Giunte).
Del resto la stessa Corte costituzionale ha ampiamente superato la propria giurisprudenza che l’aveva condotta, nel 1995, nella decisione n. 422 a dichiarare incostituzionali le cosiddette “quote rosa”, sulla base del principio secondo il quale la rappresentanza politica è per sua natura universale e l’introduzione del riferimento al “genere” farebbe venire meno, appunto, questa caratteristica essenziale; aprendo al genere, si diceva, si aprirebbe la strada ad un Parlamento composto dei rappresentanti di interessi e gruppi minoritari.
A questa critica si rispondeva con la constatazione che il principio della rappresentanza dei due generi, e quindi la presenza femminile, non può affatto essere messa sullo stesso piano della rappresentanza di gruppi diversi.
La stessa Corte costituzionale, comunque, ha ampiamente superato quella decisione: nella sentenza n. 49 del 2003 – decidendo su una norma antidiscriminatoria approvata dal legislatore della Valle d’Aosta – Essa aveva affermato che le nuove disposizioni costituzionali concernenti le pari opportunità nell’ambito della rappresentanza politica stabiliscono come “doverosa” l’azione promozionale per la parità di accesso alle consultazioni elettorali. Nella sent. n. 4 del 2010, fugando i dubbi sulla conformità a Costituzione della cosiddetta doppia preferenza di genere, la Corte ne valorizza la coerenza con l’obiettivo di una effettiva attuazione dell’uguaglianza tra i sessi, principio “astrattamente sancito, ma non compiutamente realizzato nella prassi politica ed elettorale”. Peraltro, a detta del Giudice costituzionale, quel meccanismo, limitandosi ad offrire all’elettore “possibilità di scelta aggiuntive”, si propone di realizzare legittimamente l’obiettivo, attraverso un meccanismo non coattivo, ma di natura promozionale.
E infine nella bellissima decisione n. 81 del 2012, resa nell’ambito di un conflitto sollevato dalla Regione Campania, che lamentava come i giudici amministrativi avessero illegittimamente annullato gli atti di nomina della Giunta regionale perché in essa presente una sola donna, la Corte stessa afferma in modo chiarissimo che il canone dell’equilibrio di genere imposto dalle norme (in quel caso dello Statuto regionale) è un canone che si pone in rapporto di “armonia” con la Costituzione.
Come si vede, la Corte costituzionale ha nel tempo sempre più chiaramente e incisivamente riconosciuto la legittimità, e anzi la stessa necessità, di norme che, ponendo rimedio alle gravi discriminazioni perpetrate nel corso del tempo a danno delle donne, ne favoriscano l’ingresso nelle istituzioni.
L’argomento che viene agitato in questi giorni è però un altro: e cioè si dice che, in questo caso, non si tratterebbe di norme antidiscriminatorie, di norme, cioè, che si limitano ad incrementare la possibilità di elezione delle donne. La previsione delle liste bloccate comporterebbe infatti che inserire il riferimento alla necessaria composizione paritaria delle liste, o nella misura del 40 e 60 per cento, equivarrebbe a garantire direttamente il risultato dell’elezione. Aspetto questo sul quale per la verità la Corte non si è ancora espressa, ma sul quale parecchi costituzionalisti ritengono (ancora) che si esprimerebbe negativamente.
Detto in parole più semplici, si sostiene che mentre il principio di uguaglianza e la libertà dell’elettore non verrebbero lesi nel caso di norme che si propongono unicamente di garantire al genere sottorappresentato maggiori possibilità di accesso al Parlamento, come avviene con il meccanismo della doppia preferenza di genere, tale illegittima incisione si avrebbe qualora la misura normativa si proponesse di attribuire il risultato dell’elezione.
Sicuramente, vi è un aspetto formale al quale il legislatore dovrebbe prestare attenzione nell’ottica di non incorrere in vizi di incostituzionalità, e cioè quello di utilizzare un riferimento neutro, senza rivolgersi espressamente alle donne o agli uomini, ma usando formule quali “nessuno dei due sessi”, o “ognuno dei due sessi”, in modo che la norma venga letta come “intercambiabile”.
Soprattutto, però, mi pare che la questione vada risolta in un altro modo, che consente di aggirare tutti gli ostacoli: la rinuncia, cioè, alla lista bloccata tout court, a mio avviso non del tutto esente in sé da dubbi di incostituzionalità, secondo le indicazioni del giudice costituzionale. Introducendo la preferenza, con la possibilità della doppia preferenza di genere, si ridarebbe il potere di scelta agli elettori, garantendo rappresentanti scelti, donne e uomini.