DIETRO LE QUINTE/ Tra Miglio, Enrico Cuccia e Bruxelles: la “nuova Lega” di Salvini

- Gianluigi Da Rold

Strana, l'intervista di Matteo Salvini al Corriere della Sera, ma solo fino a un certo punto. Ecco perché, nonostante Maroni, la Lega di Salvini cambierà statuto. GIANLUIGI DA ROLD

salvini_roma_manoR439 Matteo Salvini (Infophoto)

Matteo Salvini, segretario della Lega Nord, dopo la manifestazione di Bologna, rilascia un’intervista al Corriere della Sera dove è quasi evasivo su una domanda cruciale. L’intervistatore sembra suggerirla, la risposta evasiva. Chiede: “La Lega ha oggi ambizioni nazionali. Ma resta, nel primo articolo del suo statuto, ‘per l’indipendenza della Padania’. E’ possibile che lo statuto cambi e voi smettiate di essere indipendentisti?”

Salvini la prende alla larga, nella sua risposta: “Noi stiamo lavorando per concretizzare le idee geniali del professor Miglio. Il punto è l’autogoverno per tutti i territori: macroregioni, statuto speciale, autonomia e indipendenza sono dei mezzi per arrivare a quello”.

Il ricorso a Gianfranco Miglio, teorico del federalismo e forse anche di più, nell’Italia degli anni Novanta, è quasi d’obbligo. Ma si potrebbe obiettare che anche la Lega Nord degli anni Novanta, quella del senatùr Umberto Bossi al comando, ha avuto i suoi contrasti, non semplici, con Miglio. Chissà che posizione avrebbe oggi il professore rispetto alla politica italiana in generale e a quella della Lega in particolare.

Nel “pantheon” leghista Miglio ci resta di diritto, ma molto tempo è passato da quel periodo in cui la Lega, pur con parole d’ordine durissime e politicamente scorrettissime, cercava ugualmente soluzioni politiche a livello nazionale. Lo attestano il governo con Berlusconi e, volenti o nolenti, con Fini. Poi l’appoggio al governo tecnico di Lamberto Dini, quindi l’avvicinamento a Rocco Buttiglione e a Massimo D’Alema, che definì la Lega una “costola della sinistra”. Infine il lungo percorso a fianco di Silvio Berlusconi.

A ben guardare la Lega non è mai stata una forza regionale (e forse veramente indipendentista), ma un partito ben radicato al Nord che ha avuto un grande successo negli anni Novanta, perché poneva al centro del suo programma la “questione settentrionale”, cioè il problema del motore economico del Paese che veniva imbrigliato, intrappolato da uno Stato ipertrofico, immobile, antico e ottuso, con una burocrazia anacronistica e da una pressione fiscale che già allora era asfissiante.

La prima edizione de Il sacco del Nord del sociologo di sinistra Luca Ricolfi è del 2010 e racconta la perdita dello slancio federalista italiano negli anni precedenti. Poi Ricolfi, un anno dopo, pubblicherà La repubblica della tasse, ribadendo e ampliando gli stessi concetti di una storia andata male.

Ma la colpa non è solo della Lega cosiddetta “indipendentista”. Le colpe sono complesse e sono ampliate dalla grande crisi economica mondiale del 2007. Alla fine, se ci si permette un poco di schematismo, non è la Lega che è cambiata, ma è il Nord che è molto mutato.

Ma il fatto principale, sapendo bene che la differenza tra Nord e Sud si è addirittura ampliata per forza economica, è che anche la “questione settentrionale” è stata ingabbiata dalla tecnocrazia europea, dalla politica economica europea in risposta alla grande crisi mondiale del 2007.

Facciamo un elenco delle sofferenze dell’Italia e soprattutto del suo “motore” economico nordista. La grande borghesia, quella che ha legato il suo nome alle grandi aziende, ha svenduto o si è trasferita all’estero, naturalmente ammaliata dalla finanza. Insomma, ha ammainato bandiera, ribadendo in questo modo di essere quello che aveva sempre sostenuto Giorgio Amendola: una “borghesia stracciona”. Il “quarto capitalismo” delineato e spalleggiato dalla grande Mediobanca di Cuccia e Maranghi non decolla, non viene aiutato contro le incursioni internazionali e contro le miopie nazionali. Se nel 2007 lo storico dell’economia Giuseppe Berta poteva raccogliere per gli Annali Feltrinelli La questione settentrionale delineando una grande zona italiana, una autentica macroregione padana attiva e innovativa con Milano capitale, oggi Berta scrive La via del Nord, con un sottotitolo triste: dal miracolo economico alla stagnazione.

Il giovane Matteo Salvini, nonostante la grevità del suo modo di fare politica, del suo schematismo spesso insopportabile, dei suoi toni lepensisti insopportabili, non poteva fare altro che cambiare politica. A parte l'”utopia” indipendentista, che esisterà sempre nel linguaggio leghista, quale modello di Nord poteva difendere?

Ecco cosa dice Berta: “La società settentrionale ha perso il proprio carattere più esemplare, cioè l’essere il motore dello sviluppo del Paese, capace non soltanto di additare un percorso di progresso, ma di convogliare lungo il cammino della crescita parti e componenti del resto d’Italia. Ora il più solido stereotipo del Nord — il pensare se stesso come area forte tra le aree forti d’Europa — semplicemente non esiste più, dissolto come le virtuose pratiche civili di cui si credeva un tempo depositario”. Parole che sono come pietre, ma che Berta documenta con dati e ricerche.

Alla fine Matteo Salvini, “rampollo” e coprotagonista di una classe politica sgangherata, non aveva altra scelta che spostare gli obiettivi politici dalla difesa del Nord alla difesa dalla tecnocrazia europea e dallo strapotere della finanza. Buon senso, anche se speso con scarso peso politico specifico. Per questo la Lega cresce nei sondaggi: per le polemiche sugli emigrati, per la denuncia contro la legge Fornero, per la battaglia contro la pressione fiscale.

L’appunto che Roberto Maroni ha fatto a Salvini — l’articolo 1 va mantenuto, l’indipendenza della Padania resta al primo posto — è in fondo solo una difesa della vecchia “barricata”, che al momento si avvicina più alla mitologia che alla politica.





© RIPRODUZIONE RISERVATA

I commenti dei lettori

Ultime notizie

Ultime notizie