FINANZA & POLITICA/ Crac banche, tutte le colpe di Renzi

- Antonio Quaglio

Nelle occasioni che contano, Renzi appare puntualmente debole. Ne è l'ennesima prova il modo con cui è stata gestita l'operazione che ha portato al decreto salvabanche. ANTONIO QUAGLIO

renzi_dubbi_fallimentoR439 Matteo Renzi (Infophoto)

Un premier che promette brioches (300 milioni, anzi 100, anzi 40, anzi forse niente) ai risparmiatori che in fondo lui stesso ha tradito, in un Consiglio dei ministri di dieci minuti, una domenica sera. Un premier che parla di civiltà europea all’Accademia dei Lincei ma viene subito zittito da un oscuro portavoce della Commissione Ue. Un premier dal sottile populismo “narrato” assediato dal populismo vero, duro e fangoso: quello delle piazze inferocite, dei tribuni consumeristi alternati tutto il giorno sulle reti all-news alle vedove dei suicidi; quello delle prime pagine strillate dei giornali di provincia. Un premier che, pressato nella sua area, calcia campanili altissimi, pericolosissimi: una riforma-palingenesi per le banche italiane; una commissione-Norimberga per i banchieri “che hanno sbagliato”. Un premier che spedisce la sua ministra preferita a difendere l’onorabilità del padre, vicepresidente della banca più fallita di tutte, ma guardandosi bene dal rivelare quale danno patrimoniale abbia subito la famiglia e quali rischi giudiziari corra se la Procura dovesse muoversi.

Questa volta Matteo Renzi appare davvero in difficoltà: e non perché quattro banche italiane sono fallite. La sua collega Angela Merkel ne ha viste e fatte fallire molte e peggio. Lo Stato tedesco è ancora azionista di controllo di Commerzbank sette anni dopo il crac Lehman Brothers. Deutsche Bank si è tolta di dosso solo pochi mesi fa sei miliardi di euro di derivati-crosta: molto peggio delle marmitte Volkswagen. Dalla gestione e dalla governance di alcune Landesbanken (tenacemente pubbliche nell’Europa 2015) è uscito materiale più orripilante di quello rifluito dalle risoluzioni di Banca Etruria, Banca Marche, CariFe e CariChieti. Certo la cancelliera federale, nell’autunno 2008, accordò l’assicurazione federale a 400 miliardi di euro di depositi bancari di 80 milioni di tedeschi. Lei ha potuto permetterselo due volte: Renzi non ha nel bilancio italiano neppure gli spiccioli demagogici per i rimborsi “umanitari” e soprattutto ha i ceppi delle nuove regole Ue-Bce ai polsi. Ma il problema ripetiamo, non è stato questo. 

Alexis Tsipras, sei mesi fa, ha gestito un intero Paese fallito con disperata spregiudicatezza: ma non ha sbagliato una mossa. Alcune – dicono – sono state discretamente suggerite o accompagnate della diplomazia Usa: ma anche Renzi – dicono – sta molto a cuore a Washington. Il punto è che, nei drammatici giorni di luglio, nel palazzo del governo di Atene si respirava più adrenalina che nella vicina piazza Syntagma. Che un’emergenza-paese è stata gestita come meritava un’emergenza-paese. Che il grigio economista oxfordiano Euclides Tsakalotos è subentrato in corsa – al momento giusto – all’istrione greco-australiano Yanis Varoufakis. Che nella “notte più lunga” a Bruxelles, Tsipras e Tsakalotos sapevano esattamente cosa volevano i tedeschi in cambio del salvataggio (ad esempio, gli aeroporti greci, che stanno per essere ceduti in questa fine d’anno a Fraport). E il lussemburghese Jean Claude Juncker nelle stanze delle trattative finali non ci è neppure entrato e neppure Mario Draghi: Tsipras occhi-negli-occhi con Merkel e Hollande. Eccetera eccetera: comprese le carte – tenute coperte sul tavolo – dei retroscena di un quindicennio di rapporti fra banche e banchieri, centrali o privati, ad Atene, a Francoforte, a Londra, a New York.

Il Renzi che ora vuole processare il sistema bancario italiano e vorrebbe rifondarlo ex novo si è invece dimostrato un premier debole perché colpevolmente solo. Un premier debole perché la risoluzione delle quattro banche italiane – come l’intera “questione bancaria” nazionale – non era e non è un caso tecnico-finanziario: come sta confermando la cronaca di queste ore, è una vicenda essenzialmente politica. 

È il banco di prova per eccellenza dei rapporti di forza in Europa: tutti i rapporti di forza. E mai nessun premier come Renzi ha avocato personalmente a sé la sintesi politica della forza e della credibilità di un governo e di un Paese. Un premier solo e alla fine non consigliato da nessuno: forse neppure da qualche amico finanziere a Londra. Un premier inequivocabilmente poco supportato né dal suo braccio destro in campo economico – il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan – né da quello sinistro: il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Entrambi diligentissimi ex funzionari dell’Ocse, ma poco conoscitori di banche e vigilanza, come del resto il presidente della Consob, Giuseppe Vegas: tutti alla fine pochissimo ascoltati a Palazzo Chigi. Da dove invece il premier ha sempre guardato a banche, Fondazioni, Popolari, Credito cooperativo come a “corpi intermedi” da rottamare.

Invece pilotare il fallimento di quattro medie banche – primo caso in Europa – era un’operazione di alta amministrazione che richiedeva lunga preparazione: gioco di squadra fra ministri, tecnocrati, diplomatici, banchieri. Avrebbe richiesto anche un chiarimento forte e reciproco con l’italiano che presiede la Bce: che è sotto massima pressione dalla Germania per la sua volontà di proseguire gli stimoli monetari nell’area euro; che è sospettato di troppa intelligenza con Wall Street; che è fatalmente sotto scacco in quanto proveniente dal vertice di una banca centrale accusata di non aver vigilato a dovere sulle sue banche. 







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