E’ unanime il commento che fotografa l’ascesa al Quirinale di Sergio Mattarella con Matteo Renzi “dominus” incontrastato. E’ un’immagine veritiera, ma come tutte le istantanee è da vedere quanto durerà. Forse due o, al massimo, tre giorni. Già in occasione del discorso d’insediamento i commentatori che oggi esaltano le “mani libere” di Renzi cominceranno a fare qualche passo indietro ammettendo l’inizio di un “condominio”, di una “coabitazione”, di una “diarchia”. Sono cioè mutati i “rapporti di forza” tra Palazzo Chigi da un lato e dall’altro il Parlamento, il Pd e il Quirinale.
Nell’ultimo anno Renzi si era affermato in modo anche spavaldo — con superiorità e autosufficienza — nei confronti del Parlamento, della minoranza Pd e dello stesso Quirinale. Ciò era stato possibile perché il Parlamento si era delegittimato dall’incapacità dimostrata di eleggere un presidente della Repubblica, Bersani e il vertice ex Pci ed ex Dc del Pd responsabili del “pasticcio” Marini-Prodi potevano solo strisciare con il bavero alzato e lo stesso Napolitano era ridimensionato dal “patto del Nazareno” ovvero dal venir meno del governo Letta e della maggioranza di “larghe intese” che aveva patrocinato.
Ora però l’ampia maggioranza che finalmente elegge il successore di Napolitano segna una riabilitazione delle Camere elette nel 2013, Bersani principale sponsor di Mattarella non è più un impresentabile da rottamare, il Quirinale non è più una prorogatio d’emergenza e contestata. Certamente Matteo Renzi oggi trionfa evidenziando l’inconsistenza di qualsiasi ipotesi a lui alternativa sia sulla destra sia sulla sinistra, ma il colpo di scena della rottura con Berlusconi e lo stesso Alfano rappresenta una presa di distanza dalla politica da lui fatta in questi mesi. Il discorso che Renzi ha svolto ai parlamentari del Pd — registrando la soddisfazione di Bersani, Bindi e Fassina — nel vecchio Pci sarebbe stato definito una “autocritica”. In che senso?
Matteo Renzi ha stravinto le elezioni europee sei mesi or sono. Da allora si è mosso con grande piglio decisionista e coraggio con la maggioranza di governo retta da Alfano non temendo di scontrarsi con “casematte” di gramsciana memoria — dalla Cgil alla stessa Associazione nazionale magistrati — come è emerso in particolare nella riforma dell’articolo 18 e nel Jobs Act. Parallelamente con energia il premier, avvalendosi del “patto del Nazareno” con Berlusconi, ha radicalmente modificato l’assetto costituzionale superando il bicameralismo e varando la nuova legge maggioritaria. Provvedimenti su cui si possono dare giudizi diversi, ma che hanno rappresentato uno scossone ed una rotta indirizzata al concreto e all’innovazione senza precedenti. Con quale risultato però? Un crescente calo di consenso a sinistra e una perdita di voti di oltre cinque punti con tanto di pericolo di scissione che, ancora nei giorni scorsi all’indomani della vittoria di Tsipras, era calcolata oltre il 10 per cento dei voti.
Certamente i sondaggi vanno presi con beneficio d’inventario, però la sostanza è che l’alleanza con Alfano e con Berlusconi ha visto primeggiare Renzi ed anche imporre le sue soluzioni, ma il premier negli ultimi mesi è finito su un piano inclinato discendente.
A ciò si è aggiunto — per lui quasi a sorpresa — l’annuncio delle dimissioni di Napolitano che hanno esposto Renzi a una nuova offensiva sulla sua sinistra (dall’interno e dall’esterno del Pd). Dopo gli scontri in aula che mostravano che non aveva più una maggioranza autosufficiente in Senato, si è trovato un terzo dei parlamentari Pd in assemblea con Bersani a diffidarlo dall’eleggere un capo dello Stato espressione del patto del Nazareno. Unica via di fuga sembrava rappresentata da Giuliano Amato, che però era figura relativamente autonoma e soprattutto con rapporti diretti sia con Berlusconi sia con la minoranza del Pd che scavalcavano Palazzo Chigi.
Che cosa ha fatto allora Renzi? Ha cercato di recuperare il consenso perduto a sinistra. All’assemblea dei parlamentari del Pd si è “autocriticato” nel senso che ha preso le distanze sia dalla maggioranza di governo sia dal patto del Nazareno, e accordandosi con Bersani ha dato vita a una maggioranza senza Berlusconi e Alfano. Non è una “terza” maggioranza, quella dell’elezione presidenziale è la “vera” maggioranza. A sottolinearne il valore “politico” è stato lo stesso Renzi che ha notificato ad Alfano che chi non vota Mattarella non può stare nel suo governo.
I renziani assicurano che nulla è cambiato, che la maggioranza di governo è salda e il patto del Nazareno confermato, il segretario fiorentino plenipotenziario e il Quirinale un semplice busto al Pincio (simbolo retorico della Prima Repubblica, come lo ha tratteggiato Renzi, di lotta alla mafia, dimissioni per principi, ecc.).
Non è esattamente così. 1. Con l’ex giudice costituzionale e padre del “Mattarellum” i prossimi passaggi delle riforme istituzionali ed elettorali saranno seguiti da vicino dal Quirinale e Renzi sarà chiamato a render conto di ogni passo. 2. La ex minoranza Pd avrà più voce in capitolo e non potrà più essere emarginata per accordi diretti con i delegati di Berlusconi, a cominciare dal tema del Parlamento dei nominati con i capilista bloccati. 3. Palazzo Chigi avrà meno “le mani libere” nel ricorso a decreti legge e leggi delega esautorando il Parlamento.