ACCORDO SENATO/ Il prezzo (troppo alto) di una “riforma” anarchica

- Giulio M. Salerno

Ieri Anna Finocchiaro ha presentato i 3 emendamenti che traducono l'accordo politico tra governo e minoranza Pd. Ma per la riforma, nel complesso, è una sconfitta. GIULIO M. SALERNO

renzi_stampa1R439 Matteo Renzi (Infophoto)

Gli emendamenti presentati al Senato dalla presidente della Commissione affari costituzionali Anna Finocchiaro al ddl di revisione costituzionale risolvono un grave problema politico all’interno del Partito democratico, ma nello stesso tempo aprono nuove questioni all’interno della coalizione di maggioranza, tra le forze che si muovono ai confini di quest’ultima e nelle stesse opposizioni. Con la ricomposizione tra le diverse anime del Pd, infatti, tutti coloro che sinora lavoravano all’ombra di questo conflitto dovranno uscire allo scoperto. Le rendite di posizione — sia per chi intendeva opporsi al progetto riformatore, sia per chi si offriva per sostenerlo — sono venute meno. Il quadro politico, dunque, già così scomposto, è destinato a sfrangiarsi ulteriormente.

Con questi emendamenti, poi, il governo ha dimostrato che non aveva piena sicurezza di passare indenne il giudizio dell’Aula. E l’opposizione interna al Pd ha dimostrato di poter porre delle condizioni insuperabili per il governo stesso. Le altre forze politiche possono ancora approfittarne. Il percorso parlamentare si apre, infatti, a scenari inediti: se su alcuni punti il governo ha accettato di modificare il testo, perché non provare lo sfondamento su altri profili? In altri termini, questi emendamenti non chiudono la partita, ma dimostrano che il testo non è più blindato.

La posizione del presidente del Senato, Pietro Grasso, tra l’altro, si è alleggerita di molto. Rinviata fin quasi al limite massimo la decisione sull’ammissibilità degli emendamenti all’articolo 2, il maggior onere è stato spostato sul governo che ha dovuto ricercare l’intesa che, minimizzando i costi politici, evitasse il rischio incombente — ed ancora latente — dei voti dell’Assemblea sull’art. 2. Il governo si è rivolto dunque alla “fronda” del Pd. Ma la principale richiesta presentata dall’opposizione interna del Pd, quella sull’elettività del Senato, non consisteva solo in una questione di democrazia, come pure si è sostenuto. Era anche un problema di sopravvivenza di un ceto politico: senza una sufficiente garanzia di selezione in qualche modo “eterodeterminata” dei componenti del Senato, l’esito finale della riforma costituzionale — in combinato disposto con la riforma elettorale della Camera — sarebbe stata la vera e propria soppressione della precedente classe dirigente del Pd.

Il contenuto degli emendamenti presentati, infine, ha reso la riforma costituzionale ancor più anarchica. Tre sono gli effetti di questi emendamenti: l’incerto sistema “a scatole cinesi” della disciplina elettorale del Senato eletto in forma quasi-diretta (costituzione, legge bicamerale, leggi regionali); un nuovo orientamento nella determinazione delle attribuzioni del Senato; il restituito ruolo di quest’ultimo nella nomina dei componenti di un cruciale organo di garanzia come la Corte costituzionale. 

Tutto ciò non completa coerentemente il precedente disegno riformatore, ma introduce elementi parzialmente disarmonici. Ad esempio, perché non cambiare qualcosa sull’elezione del presidente della Repubblica, che, con le maggioranze ora previste, sarebbe facile appannaggio del partito che dominerà la Camera? Se l’intenzione era quella di replicare alle obiezioni da varie parti sollevate, l’esito sembra opposto: le critiche già formulate potranno trovare nuovo terreno fertile.







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