“Che mondo sarà, se ha bisogno di chiamare Superman?”: era il 1969, e Lucio Dalla cantava così nel ritornello della sua “Fumetto”, sigla iniziale de “Gli eroi di cartone”. Ma la storia, si sa, è circolare e si ripete sempre, o quasi. Chiamare Superman è una palese tendenza del governo Renzi, sia pure con alterni risultati. Risultati modesti col superman Andrea Guerra, factotum plenipotenziario al ministero per lo Sviluppo economico per sei lunghi mesi, con esiti oggettivamente poco visibili. Convocazione di un altro superman nel caso di Joram Gutgeld, commissario per la spending review, che invece sostiene di aver rimesso sui binari giusti l’infernale macchina dei tagli che aveva guidato con pochi risultati persino il grand-commis internazionale Carlo Cottarelli, ma questi binari condurranno in stazione tra cinque anni, quindi ai posteri l’ardua sentenza.
L’ultimo superman arrivato fresco fresco dall’America, come si conviene, si chiama Diego Piacentini ed è uno dei “numeri due” di Amazon, il colosso mondiale del commercio elettronico, con oltre 100 miliardi di dollari di fatturato (e poco utile, ma meno male: applicano poco ricarico e comprare sul portale conviene). Piacentini è stato nominato Commissario straordinario per il digitale. Diciamo subito che Piacentini è senz’altro un tipo bravissimo, ed è sicuramente in buona fede: ha accettato di lavorare gratis per due anni per il governo del suo Paese – lui che vive negli Stati Uniti da decenni – “per rendere la vita più semplice ai cittadini, semplificando il rapporto con le istituzioni, e per far sì che la macchina dello Stato sia in grado di usare le tecnologie come accade in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. Un rapporto semplice tra Stato e cittadino è condizione necessaria per sviluppo economico, perché stimola gli investimenti anziché frenarli”.
Lo ha dichiarato in una lunga intervista a Repubblica. In cui ha anche spiegato perché ha accettato di lavorare gratis, mettendosi due anni in aspettativa da Amazon e vivendo con i proventi (milionari) della vendita di un pacchettino delle sue azioni: “Perché sono stato stato contagiato da un’idea forte, quella del give-back, quella cioè di restituire al proprio Paese, alla propria scuola, alla propria università qualcosa di ciò che si è avuto e che ha permesso di arrivare a farsi una bella posizione”. “Una mentalità che non è nel ‘dna’ italiano”, ha sottolineato anche Piacentini, “e che ha lasciato perplessi anche i miei genitori quando ho comunicato la mia intenzione di lasciare Amazon per tornare due anni in Italia, per di più gratuitamente”. Peccato che in Italia domini questa cultura del sospetto, ha lamentato Piacentini, per cui se qualcuno fa un’azione generosa dev’esserci “qualcosa sotto”, come l’idea – nel suo caso – che la buona relazione col governo italiano possa un domani servire ad Amazon a fare migliori affari in Italia.
Fermiamoci qua. Diciamo innanzitutto un forte grazie a Piacentini, sicuramente carico di buone intenzioni, e un ancor più forte “in bocca al lupo”. E poi spendiamo due parole di chiarezza sia su questa faccenda del “give back” come alternativa preferibile alla cultura del sospetto, sia su questo tic renziano di chiamare i superman.
Gli Stati Uniti sono un Paese bizzarro, dove effettivamente chi restituisce qualcosa alla comunità dove si è formato non è un eroe isolato e viene molto ammirato. Non si può invece dire che non vi regni una – sia pur diversa – altrettanto forte cultura del sospetto, visto che il secondo emendamento della Costituzione consente a ogni americano di custodire in casa un’arma da guerra, per difendersi in caso di attacco, e tutte le famiglie ne hanno almeno una, per un totale di 89 armi da fuoco ogni 100 abitanti, e 31 morti all’anno ogni milione di abitanti, quindi 9000 all’anno in totale, contro i 4,4 dell’Italia, quindi 250 all’anno. Come cultura del sospetto, niente male.
Ma torniamo allo specifico. La faccenda del “give back” è l’architrave su cui si fondano la maggior parte delle grandi lobby americane, innanzitutto quelle dei super-college – da Harvard a Stanford, da Yale alla Columbia – che da decenni sfornano la classe dirigente del Paese e si autoalimentano cooptando sempre nuovi campioncini dagli stessi vivai. Lobby e familismo, oltre che generosità. Il give back è bello – o meglio: lo sarebbe – se “aggiungesse” e non pretendesse di “sostituirsi” al ruolo pubblico, cioè all’esercizio di quei servizi collettivi che i cittadini contribuenti finanziano con le loro tasse. Sarebbe bello se si muovesse quindi in una logica di sussidiarietà, come deve sempre essere per il volontariato; e sarebbe bello se non fosse anche uno strumento di lobbing e di familismo.
Il give back degli americani ha invece esattamente questi due difetti: pretende (e a volte perfino riesce, ma ciò non toglie il difetto) di sostituirsi al ruolo pubblico. Salvo poi stranamente disinteressarsi dei servizi primari – vogliamo confrontare la sanità americana con la nostra, in termini di pari opportunità a prescindere dal reddito? – che però, poveri loro, non generano alcun effetto-lobby.
Quanto al ricorso ai supermen esterni, al quale il governo si dedica, è controproducente per altre ragioni, che col give back dei generosi americani non c’entrano. Sarebbe stato assai meglio se, anziché ingaggiare Piacentini, lo Stato avesse scovato, all’interno dei propri foltissimi effettivi informatici – quelli della Sogei o della Consip, ad esempio, società avanzatissime nel software che l’Europa ci invidia – qualcuno in grado di essere bravo quanto Piacentini essendo già dirigente pubblico…
Neanche ci hanno provato, a cercarcelo; e con una simile premessa è probabile che l’atteggiamento di questi dirigenti ignorati dai loro capi non sarà della migliore accoglienza verso il “papa straniero” chiamato a palazzo Chigi.
La scelta di questi “campioni” nasce in realtà – diciamolo – da tutt’altro, cioè dal bisogno del governo di affidare a dei testimonial credibili e noti al grande pubblico (o almeno: al pubblico che conta sui mercati finanziari, vera bussola per tante, troppe, scelte di Renzi) la rappresentanza di un cambiamento – in questo caso nel digitale – di cui, a due anni e mezzo dall’avvio del mandato, qualcosa si vede ma assai meno di quanto si è sentito promettere. E questi passaggi meteorici di campioni del management privato al mondo pubblico, calati dall’alto in ambienti che non conoscono e che non hanno gli strumenti e la sensibilità per gestire, lasciano di solito il tempo che trovano.
Infine, due paroline su Amazon. Per anni Jeff Bezos ha vinto la classifica dei migliori “Ceo” (amministratori delegati) stilata dall’autorevole Harvard business review finché l’anno scorso gli analisti della rivista hanno cambiato i loro parametri, includendo tra essi per la prima volta (e nemmeno con una particolare incidenza percentuale nei calcoli), quelli della sostenibilità sociale, ambientale ed economica dell’impresa.
Bezos è precipitato all’86 esimo posto, perché pare che non sia una mammoletta quando gestisce, semmai piuttosto un padrone delle ferriere. Certamente Piacentini è di un’altra pasta. Quindi, concludiamo tornando alla premessa: complimenti e tanti auguri. I primi li merita, dei secondi ha molto bisogno.