REFERENDUM LOMBARDIA E VENETO/ Necessari per non mettersi una Catalogna in casa

- Luca Antonini

I due referendum del 22 ottobre possono avere un ruolo decisivo per correggere le più evidenti degenerazioni del logoro assetto istituzionale italiano. Ecco perché. LUCA ANTONINI

eletti battipaglia (Foto: LaPresse)

I due referendum lombardo e veneto del 22 ottobre possono assumere significati decisivi per correggere le più evidenti degenerazioni del logoro assetto istituzionale italiano, che ormai da troppo tempo applica il principio autonomistico a prescindere da ogni considerazione su merito e responsabilità. Continuare a trattare in modo rigorosamente omogeneo realtà regionali profondamente diverse quanto a consolidata capacità di attuare i valori costituzionali sul proprio territorio (basti pensare ai diritti sociali attinenti alla sanità) costruisce un assurdo istituzionale e genera una gigantesca dissipazione di risorse. A legittimarlo ci sono, però, radici ideologiche profonde, con ascendenti in quella concezione organicistica dei corpi sociali che postula una uniformità che, come scrisse Luigi Sturzo criticandola, “non solo ai bigotti e agli ignoranti, ma a molte persone illuminate sembra dover essere uno dei caratteri dell’unità nazionale”. 

Così, in forza di questa ideologia, realtà regionali dove l’inefficienza ha assunto carattere sistematico continuano ancora oggi ad essere tranquillamente inquadrate come autonomie speciali, nonostante siano completamente tramontate le ragioni storiche che ne furono a fondamento, e realtà efficienti continuano ad essere penalizzate: quanto alle regioni ordinarie, infatti, il rischio dell’autonomia viene sempre e sistematicamente calibrato su quelle più inefficienti: il Veneto, la cui sanità è un’eccellenza mondiale e che sul turismo attrae tante risorse quanto tutte le regioni meridionali messe insieme, è quindi trattato come la Calabria, che registra tutt’altre performance. 

Ritorna allora utile riprendere quanto scriveva Hannah Arendt, in un breve manoscritto contenente gli appunti per una lezione tenuta nella primavera del 1955 all’Università della California: “Il deserto avanza, e il deserto è il mondo nella cui congiuntura ci muoviamo (…). Il rischio è che diventiamo veri abitatori del deserto, e che lì ci sentiamo a casa. L’altro grande rischio è dovuto alla possibilità delle tempeste di sabbia”.

Il deserto avanza” era la celebre espressione con cui Nietzsche, nello Zarathustra, dopo aver rivelato la morte di Dio, accusava l’avanzata del nichilismo in un mondo che aveva smarrito il significato. Hannah Arendt, riprendendone l’espressione, imputa così al filosofo che per primo aveva colto il crescere del deserto, di avere commesso l’errore decisivo di dichiararsene abitante consapevole senza cercare l’uscita, restando così vittima della sua intuizione più terribile

E’ una metafora che rimane significativa ancora oggi: nel deserto che sembra spesso caratterizzare gran parte della progettualità politica italiana, i due referendum per la maggiore autonomia regionale che si svolgeranno in Veneto e in Lombardia il 22 ottobre 2017 potrebbero gettare un pesante sasso nello stagno del dibattito e avere la forza di segnare una via di uscita dalla situazione di stallo in cui appunto versa, ormai da troppo tempo, l’assetto istituzionale italiano. 

Si tratta di referendum che, grazie alla legittimazione fornita dall’innovativa sentenza n. 118 del 2015 della Corte costituzionale, vengono svolti per la prima volta nella storia della Repubblica italiana e che pongono una questione istituzionale di fondamentale rilievo. I due referendum, se fortemente partecipati e vinti, sono quindi destinati, infatti, a riaprire un dibattito che raramente è stato calibrato sui reali problemi che impediscono lo sviluppo del Paese e che spesso si è dimostrato sciatto, retorico e inconcludente: basti pensare alla recente, fallita, proposta di riforma costituzionale che da un lato centralizzava indistintamente le competenze delle regioni ordinarie e dall’altro blindava, in modo altrettanto generico, le autonomie speciali. 

Il cuore del problema, invece, è che oggi in Italia abbiamo uno Stato invasivo al Nord e assente al Sud: è proprio sull’impegno per rovesciare questo paradosso che si potrebbe realizzare una convergenza politica ampia, in vista di riforme attuabili, in gran parte, senza necessità di ipotizzare nuovamente processi di revisione costituzionale.

Se così avvenisse, dopo i due referendum non si aprirebbe quindi solo una mobilitazione di Governo e Parlamento per dare attuazione all’articolo 116, III comma, della Costituzione e concedere la maggiore autonomia a due regioni virtuose, ma un più ampio movimento legislativo diretto anche a recuperare, attraverso la previsione di un massiccio intervento statale, il declino di quelle inefficienti.

In questo modo si potrebbe rispondere, assieme, sia alla questione settentrionale che a quella meridionale, a beneficio di tutto il Paese.

Il problema delle realtà efficienti, infatti, è oggi quello di un pervasivo centralismo che ne blocca le potenzialità di sviluppo. Quello delle realtà inefficienti, invece, non è tanto quello derivante dal progressivo disimpegno nell’assegnazione di risorse, quanto piuttosto quello determinato da un metodo fallimentare nelle modalità di erogazione di queste, spesso finite solo ad alimentare rendite parassitarie e improduttive o addirittura i circuiti della illegalità.

Diverse regioni meridionali versano oggi in un situazione di drammatico abbandono, al punto da rischiare irreversibili processi di spopolamento. 

Mentre le regioni efficienti devono essere liberate da un invasivo e ingiustificato centralismo statale, per quelle inefficienti è all’opposto necessario, data la situazione in cui versano, un potente rafforzamento della presenza statale, che potrebbe in qualche modo ispirarsi alle soluzioni adottate in Germania ai tempi della riunificazione, caratterizzate non solo dall’assegnazione massiccia di risorse ma anche da altrettanto massicci processi di commissariamento statale, fino all’utilizzo della formula delle agenzie governative, come la Treuhandanstalt.

Si dovrebbe pertanto puntare, come è stato suggerito da La Spina, su agenzie governative indipendenti, slegate dai condizionamenti della politica, come in fondo era la Cassa del Mezzogiorno prima della istituzione delle regioni: è impressionante dover constatare che fra il 1952 e il 1973 la produttività del lavoro crebbe nel Mezzogiorno in media del 5,2 per cento all’anno, quindi ben più del Centro Nord, dove invece si era fermata dal 4,5 per cento. La maggior parte della popolazione meridionale acclamerebbe una soluzione di questo tipo.

Le tempeste di sabbia metaforicamente evocate dalla Arendt possono quindi verificarsi in Italia se lo Stato non torna ad essere presente in un Sud ormai a rischio di spopolamento e se, nello stesso tempo, non capisce che lasciare maggiori risorse in territori ad alta produttività va a vantaggio di tutto il sistema nazionale, grazie al dividendo che può generare. 

Da questo punto di vista è evidente che il referendum della Catalogna per l’indipendenza rappresenta qualcosa di radicalmente diverso da quelli italiani per la maggiore autonomia. Contro la Costituzione spagnola e bocciato dalla Corte costituzionale il primo, per attuare un articolo della Costituzione, l’articolo 116, e promossi dalla Corte costituzionale, i secondi. Ma non solo. Mentre la secessione catalana avrebbe effetti perniciosi sul sistema economico spagnolo, la maggiore autonomia italiana avrebbe la capacità di sbloccare una ripresa che stenta a decollare. 

Nello stesso tempo però, il caso catalano dimostra anche come certe istanze non possano rimanere sistematicamente disattese, e quali tensioni si possano generare quando questo avviene. Da questo punto di vista i referendum italiani sulla maggiore autonomia sono tutt’altro che inutili. Solo la banalizzazione politica dei problemi porta a ritenerli tali. E’ mia ferma convinzione che senza referendum di questo tipo, che possono generare un vero e proprio tsunami politico, nessuna attuazione verrà mai data all’articolo 116 e al principio di responsabilità che esso incarna. La proposta e la tempistica dell’Emilia Romagna, che sembra principalmente diretta a dimostrare l’inutilità di questi referendum, non riesce a convincermi, non solo per la banalità delle richieste emiliane di maggiore autonomia, ma anche perché queste vengono giocate nei confronti di una legislatura orami giunta al termine, dove gli impegni che potrà assumere il Governo non possono, di fatto, avere realistica concretizzazione nel processo parlamentale. 

Al contrario, i referendum lasceranno un segno indelebile e i Governi, di destra o di sinistra, che non porteranno a termine processi che fossero richiesti a gran voce dalla rispettive popolazioni di Veneto e Lombardia, difficilmente potranno sperare un qualche benché minimo successo elettorale in queste regioni. È tale la grande potenza politica di questi referendum, che, come detto, si svolgono per la prima volta nella nostra storia repubblicana e quindi innescano una pressione sulla politica che storicamente è inedita.





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