Un altolà senza appello: Napolitano mette in guardia Renzi dal rompere tutto. “Nei paesi civili — ha detto ieri l’ex capo dello Stato, padre nobile della fu riforma Renzi-Boschi — alle elezioni si va a scadenza naturale e a noi manca ancora un anno”; e ancora: “per togliere le fiducia ad un Governo, deve accadere qualcosa. Non si fa certo per il calcolo tattico di qualcuno”. Perché va da sé che Salvini, Meloni e Grillo vogliano andare al voto senza se e senza ma; è meno scontato che a volerlo ad ogni costo sia il segretario del partito di governo. E non c’è solo la difficoltà di avviare un confronto serio sulla legge elettorale: lo spettro di una manovra aggiuntiva, i dati sull’occupazione, l’emergenza banche, la ripresa assente fanno della corsa al voto un’avventura molto pericolosa. Senza contare, avverte il costituzionalista Alessandro Mangia, sempre attentissimo a ciò che sta fuori dei codici, che “all’incertezza sulle dinamiche politiche istituzionali interne italiane si assomma un’incertezza ancor più grave sulle stesse sorti dell’Unione europea. Andare al voto per contarsi è facile, il problema è immaginarsi uno scenario plausibile il giorno dopo il voto. E la nostra attuale classe politica, complessivamente intesa, questi scenario non sembra in grado di comporlo”.
Professore, la dichiarazione dell’ex capo dello Stato è durissima.
Sinceramente, io non so cosa intenda Napolitano per “paese civile”. Quello che so è che nel nostro ordinamento si va ad elezioni quando il Presidente della Repubblica in carica prende atto che in Parlamento non esiste più una maggioranza per sostenere un Governo. Questo è l’unico dato serio da cui partire. Il che vuol dire che si riparlerà di elezioni se e quando il Pd, che è l’anima della maggioranza, deciderà di ritirare il suo appoggio al governo Gentiloni.
Le dichiarazioni politiche sulla legge elettorale si susseguono con molta libertà. Dal suo punto di vista di costituzionalista, che cosa osserva?
Osservo che la fase post-referendum è stata gestita bene e rapidamente, attraverso l’insediamento di un nuovo governo che ha garantito un passaggio indolore. Poi però il sistema è entrato in una fase di stallo, perché tutto le forze politiche avevano interesse a congelare la situazione in attesa della sentenza della Corte costituzionale. Come se alla Consulta toccasse scrivere la legge elettorale.
Per fare un ragionamento serio si dovranno attendere le motivazioni della sentenza. E nel frattempo?
Nel frattempo abbiamo per l’elezione del Senato e per l’elezione della Camera due sistemi eterogenei, il primo dei quali è stato costruito sulla logica delle coalizioni mentre l’altro prevede che le singole liste vadano al voto disgiunte in cerca del premio del 40 per cento. Non parliamo poi delle soglie di accesso, attualmente differenziate nelle due Camere. E dei meccanismi di scelta dei parlamentari eletti nei diversi collegi. Il sistema è disfunzionale, ma non si poteva chiedere alla Corte costituzionale di riscrivere la legislazione elettorale.
Politicamente cosa significa?
Significa che possiamo certamente dire che le due leggi risultanti dalle pronunce della Corte (2014, Porcellum; 2017, Italicum, ndr) sono “autoapplicative”. Ma che a tutt’oggi non si può votare, se si vuole avere una maggioranza uniforme alla Camera e al Senato. Questo è il vero punto fermo. In questo contesto si colloca la dialettica politica di questi giorni, in cui si dice tutto e il suo contrario.
Chi auspica il proporzionale lo fa a ragione o a torto?
Sulla base di quello che si è dichiarato dalla sentenza della Corte a oggi, proporzionale non vuole più dire nulla. A rigore, tanto il Consultellum del 2014 quanto il Consultellum che avremo a metà febbraio, dopo il deposito dei motivi, sono due sistemi proporzionali quanto alla formula elettorale. Ma la vera questione sta nel decidere che tipo di proporzionale si vuole e con quali correzioni. E al momento le due leggi differiscono proprio per le correzioni al sistema proporzionale.
Il Pd insiste sul Mattarellum. Funzionerebbe nell’attuale assetto tripolare?
Due osservazioni. Per tornare al Mattarellum ci vorrebbe un forte consenso tra le forze politiche che attualmente non vedo. In secondo luogo si parla già di aumentare la quota di proporzionale (pari al 25 per cento dei seggi assegnati, ndr) in seno al Mattarellum che conosciamo. In realtà il ritorno al Mattarellum sarebbe il ritorno ad un sistema elettorale sufficientemente collaudato, che ha dato mostra di funzionare abbastanza bene e può funzionare come extrema ratio. Il punto è che se si comincia con le correzioni pure al Mattarellum si torna al punto di partenza. La vera obiezione da fare, semmai, sarebbe quella per cui il Mattarellum è stato pensato nella vecchia logica, da anni 90, del bipolarismo. Oggi il sistema ha un incomodo attorno al 30 per cento che si chiama M5s e che dichiara di non volersi alleare con nessuno. E questo rischia di allontanare anche questa soluzione.
Insomma non si può e non si deve votare. Sorge però un’obiezione: avete detto fino all’altro giorno che dopo Monti, Letta e Renzi è ora di ridare la parola agli italiani e ora volete rinviare il voto?
Il punto è che se all’interno del sistema politico non c’è consenso sulla legge elettorale, che è la legge più politica di tutte, non si può andare a elezioni. Votare per contarsi è facile, e in teoria si può anche fare. Il problema è immaginare uno scenario plausibile dopo il voto.
Ma in concreto, questo cosa significa?
Significa avere un progetto che, dalle due o tre cose da fare il giorno dopo le urne, si allarghi fino a comprendere il futuro del paese. Lei vede qualcosa di simile? Io no. Per questo dico che alla luce dei fatti che vediamo, non mi immagino che si vada troppo presto al voto. Senza un intervento legislativo concordato nell’interesse del Paese, sarebbe un’avventura.
Perché siamo in queste condizioni?
Il discorso sarebbe lungo e in parte lo abbiamo già fatto. Oggi si può aggiungere che questa situazione è il risultato della manipolazioni continue che sono state fatte sulla legge elettorale dal 2005 a oggi; dal Porcellum, approvato da Berlusconi a maggioranza e cassato nel 2014, fino all’Italicum, smontato dalla Consulta una settimana fa. Risultato: non c’è più un modello di riferimento per quanto concerne il dibattito sulla legislazione elettorale, che così è diventata il regno del possibile, con le forze politiche — tutte — che ragionano sulla base di calcoli contingenti a breve o a brevissimo termine.
E dire che si dovrebbe alzare lo sguardo, perché ciò che accade intorno a noi non lascia intravedere nulla di buono. Si parla di una manovra correttiva da 3,5 miliardi.
Sì, rischiamo di andare incontro a un intervento correttivo dei conti pubblici. Ed è preoccupante in questo momento, perché le istituzioni europee stanno attraversando la loro crisi più profonda dal Trattato di Maastricht del 1992.
La Ue è soggetta a delle criticità fortissime: una è la tenuta dei nostri conti, l’altra è quella del Brexit, poi viene la politica autonoma su euro e migranti rivendicata dai paesi del gruppo di Visegrad e infine lo scontro che oppone Trump a Merkel. Tutto questo come grava sull’Italia?
Assomma all’incertezza sulle dinamiche politiche istituzionali interne un’incertezza ancor più grave sulle sorti di quella stessa Unione europea che governa i nostri conti. E’ un’incertezza che dipende in larga misura dai cambiamenti intervenuti nell’amministrazione americana: un’amministrazione che si muove alla luce di un modello sociale ed economico che, per visione ed obiettivi, è quasi antitetico rispetto a quello fatto proprio dall’Ue negli ultimi anni. E che la Ue proclama di voler continuare a perseguire.
Con quali possibili conseguenze?
La prima conseguenza sarà un ulteriore indebolimento dell’Europa, o meglio, delle istituzioni europee come soggetto politico: da sempre l’Europa sta o cade in virtù del suo rapporto con gli Usa. Se questa rapporto viene meno, e l’Europa intende entrare in una fase di attrito con il suo alleato storico, a chi si appoggerà? Alla Russia cui ha messo sanzioni? O alla Cina? E’ preoccupante pensare alle prime dichiarazioni di Juncker alla notizia dell’elezione di Trump: un raro esempio di antidiplomazia. E non c’è da stupirsi, allora, dell’intervista di Peter Navarro sul Financial Times che descrive l’euro come un “marco camuffato”. Significa che questa amministrazione non ha nessuna intenzione di tollerare il dumping monetario che ritiene essere alla base del surplus commerciale tedesco.
Vuole un euro più forte.
Tenga poi conto che, a livello medio, il tasso europeo di inflazione si sta avvicinando a quella soglia del 2 per cento che è l’obiettivo istituzionale della Bce. Questo vuol dire che, verosimilmente, Draghi comincerà ad essere sottoposto a forti pressioni tedesche per interrompere il Qe. In fondo l’inflazione in Germania cresce, e la Germania ha elezioni vicine. Se la Bce non interverrà più a calmierare i rendimenti dei titoli di stato e a sostenere il valore delle obbligazioni, il primo effetto sarà quello di generare nei paesi più deboli una forte crisi finanziaria. Ma il nodo non è soltanto economico, è innanzitutto politico.
In quali termini?
L’Europa non sa in che rapporti sarà domani con questi nuovi Stati Uniti, che guardano all’Ue come a una costruzione artificiale, funzionalizzata agli interessi dell’economia tedesca. E purtroppo le analisi meno preconcette e più avvedute dicono che è proprio così. Si rende conto che, in questo quadro di complessiva destrutturazione dei rapporti politici mondiali, e di ridiscussione dei modelli di sviluppo, sempre che di sviluppo abbia senso ancora parlare, noi abbiamo una classe politica che ragiona sul fatto di andare o meno ad elezioni con un Mattarellum corretto?
(Federico Ferraù)