ELEZIONI 2018/ Di Maio & M5s, i rischi dell’incompetenza dei furbi

- Salvatore Sechi

Dopo il 5 marzo arriveranno nuovi eletti dei 5 Stelle, che non avranno alcuna esperienza di gestione della cosa pubblica. Con possibili derive negative. SALVATORE SECHI

beppe_grillo_dimaio1_m5s_lapresse_2017 Grillo e Di Maio, Lapresse

Una caratteristica del movimento 5 Stelle dopo il 5 marzo sarà la seguente. I muovi parlamentari eletti non presentano — al pari dei loro predecessori — nessuna esperienza di gestione della cosa pubblica. Non si sono fatti le ossa neanche come sindaci, assessori comunali o regionali. Sono, dunque, in tema di legislazione e provvedimenti riservati alle due Camere,  prevalentemente degli incompetenti.

Ciò che bisogna aspettarsi, se e quando mai si formasse un governo, è che le responsabilità eventualmente assegnate ai parlamentari eletti del movimento di Grillo, finiscano usucapite, cioè trasferite nelle mani di consiglieri, consulenti, assistenti, documentaristi, eccetera. Il ricorso a questo personale è normale nel corso della preparazione di una legge, per aspetti specifici di essa o per informazione su come è stata disciplinata in altri parlamenti. In questo caso però l’incompetenza si tradurrebbe in una vera e propria sostituzione, salvo che nell’espressione del voto (che resta una competenza personale irrinunciabile dell’eletto). L’esito, comunque, è che nelle due assemblee elettive si vedrebbe ampliata ulteriormente la filiera di chi non ha avuto mandato dal popolo (gli elettori), ma lo ha avuto da un eletto (in questo caso i pentastellati). 

Non ci sarebbe nessuna novità, salvo il fatto che l’area dei “nominati” si dilaterebbe ulteriormente. La politica perderebbe ogni spessore e diventerebbe il luogo delle decisioni prese da altri (rispetto ai legittimi rappresentanti). Per di più questi altri sarebbero, al pari di chi li sceglie e li nomina, persone prive di ogni professionalità istituzionale. Cioè, ancora una volta,  degli incompetenti. E’ ragionevole preoccuparsi del fatto che Camera e Senato siano popolate di chi ignora i rispettivi statuti. In realtà si ignorano anche i procedimenti normativi, le funzioni dei diversi corpi che costituiscono la mastodontica burocrazia dello Stato, i rapporti con le Regioni e i Comuni, con le assemblee della Ue, eccetera.

Certamente una democrazia può essere fortemente indebolita dalla mancanza, nel ceto che rappresenta il paese e il governo, di molte attitudini funzionali. Non è la stessa cosa dire — come fa da oltre un anno il quotidiano Il Foglio — che per incompetenza un regime democratico muore. L’incompetenza in M5s si sposa con l’inaffidabilità. Di essa occorre essere molto preoccupati.

Come si può fare un investimento fiduciario in chi (come Di Maio, ma anche la Lega di Salvini) sull’euro e la stessa adesione all’Europa fa piroette stagionali? Prima cavalcando l’euro-scetticismo, scortando Marine Le Pen (in Francia ha pagato il suo nazional-sovranismo con una secca sconfitta elettorale). Poi abbandonando la proposta di assoggettare l’euro a referendum, e limitandosi ad anestetizzare le vecchie pretese. Ora sgattaiolando di fronte alle domande e arrendendosi a proporre correzioni e riforme fiscali.

Ma gli analisti inglesi di Capital Economics non si sono lasciati convincere. Si sono chiesti: siamo proprio sicuri che Salvini, nel caso in cui la Lega avesse un successo elettorale il 5 marzo, non rimetta a nuovo, sbandierandola, la vecchia idea proveniente dai 5 Stelle, suo competitor e possibile alleato? Come ci si può fidare di chi come Di Maio (e ancora Salvini) intende cancellare la legge Fornero sulle pensioni, anzi intende in due legislature (nei prossimi dieci anni) ridurre il nostro mastodontico debito pubblico di circa 40 punti percentuali (cioè dal livello odierno di circa il 131,6 per cento a quota 90)? Poiché la riforma pensionistica nel biennio 2019-2020 produrrebbe un risparmio annuo lordo di 25 miliardi e cancellarla renderebbe ancora più difficile ridurre il debito, le intenzioni di 5 Stelle e Lega sono favole pericolose. Chi le propone ha sicuramente una grande considerazione di Donald Trump. Anch’egli, prima di Di Maio, aveva annunciato, in campagna elettorale, che avrebbe annullato il debito pubblico degli Stati Uniti in due legislature (cioè in otto anni).  

Secondo le regole europee il debito pubblico non può superare il 60 per cento del Pil. Ebbene in Italia attualmente è al 131,6 per cento. Forza Italia ne prevede una riduzione di 20 punti (112,8 per cento) entro il 2022. Il Pd ha annunciato una riduzione del Pil a 100,6 per cento (addirittura di circa 31 punti) per l’anno 2029. Come abbiamo visto, Di Maio pensa di abbatterlo di una quarantina di punti (cioè portandolo al 91,65 del Pil) nel 2028.

L’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano, diretto da Carlo Cottarelli, ci ha informato che i programmi dei partiti in lizza per le elezioni invece di programmare tagli del deficit che ogni anno si accumula sul bilancio dello Stato, garantiscono esattamente il contrario, cioè sensibili mancate coperture che vanno a rimpinguare il deficit e il debito. Per un paese che ha un deficit al 3 per cento, per abbattere il debito di 40 punti ci vorrebbe una crescita del 7,7 per cento nella media dei prossimi 10 anni. Un ritmo impensabile per l’Italia, e anche assai arduo e oneroso per paesi dal piè veloce come Cina e India. 

Di Maio lo può sognare e irresponsabilmente può anche prometterlo. La realtà è, però, un’altra. Il suo partito ha preso impegni elettorali per circa 103,4 miliardi di misure. Fino ad oggi non sa dove sbattere la testa per reperire 64,2 miliardi di coperture.

Di questa incapacità da infanzia politica è figlio lo spettacolo di un gruppo dirigente (in realtà una setta calzata e vestita) che pretende di governare il paese, ma non è in grado di controllare i pagamenti di cento parlamentari. E che non ha il minimo rispetto per la diversità delle opinioni. Il maltrattamento inferto al sindaco di Parma Federico Pizzarotti e le giustificazioni più incredibili trovate per una sindaco palesemente e strutturalmente incapace come quello di Roma, dimostra che alla testa di M5s c’è un gruppetto di potere senza alcuna etica della responsabilità.

Ha ragione Massimo Giannini su Repubblica a racchiudere la parabola dei 5 Stelle tra lo psicodramma degli scontrini (nel 2013) e l’odierna tragicommedia dei rimborsi. Tutto ciò è la metafora dei giorni difficili, delle incertezze, degli sbandamenti se non delle vere e proprie derive che ci può riservare un governo Di Maio. Invece di esorcizzarlo come la reincarnazione del fascismo, meglio trattarlo per quello che è, un partito come gli altri. Ma anche meno affidabile degli altri, perché l’onestà personale non è una garanzia di buongoverno. Grillo e i suoi ragazzi non hanno ancora capito che la governabilità di un paese non esige solo mani pulite. Ci vuole una grande, sperimentata professionalità nell’occuparsi della crisi di un’impresa o di una banca, nel trattare con l’Unione Europea, nell’evitare di mettere in grande allarme i mercati finanziari, nell’estendere le tutele sanitarie, nel gestire (oltreché nell’accogliere) migliaia di migranti, nel dare lavoro ai milioni di cittadini che non ce l’hanno o lo hanno perso.

Ebbene, M5s non ha ancora saputo presentare agli elettori uno straccio di programma economico. Distribuisce solo sussurri e grida anche per quanto concerne la tante volte preannunciata squadra di governo. Se saranno del rango delle candidature, anch’esse lentamente distillate, dobbiamo dire che Di Maio sa cinguettare, ma non convincere.

Fin a quando pensiamo che sia saggio tenerci una democrazia dove la sovranità popolare è un rito, una fiera di scatole vuote e di affabulazioni? Non solo in Italia, ma in Francia e negli Stati Uniti gran parte dei cittadini aventi diritto o non va a votare o dichiara di essere stanca di farlo perché il suo voto non conta assolutamente nulla. La sovranità popolare può convivere con una piccola quota di  persone che rubano, imbrogliano e si arricchiscono. Ma non può sopravvivere quando la maggioranza della popolazione rifiuta di esercitare il diritto di voto e i partiti distillano fiumi di camomilla o fanno del giardinaggio coltivando piante grasse di moralismo.





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