Dopo il summit Salvini-Orbán (e gli scontri etnici in Germania), Paolo Mieli ha ripetuto sul Corriere che i partiti populisti a caccia di leadership definitiva in Europa sono nulla più che sovversivi “barbari alle porte”. Sulle stesse colonne Sabino Cassese continua a vedere la coalizione di governo italiana come uno scivolo verso la “democrazia illiberale”. L’immagine di fondo — la sintesi storico-politica degli argomenti — rimanda puntualmente agli anni Venti e Trenta del secolo scorso: in Italia, Germania, Ungheria, Austria. La dittatura (“fascista” e prodromica alla guerra) è sempre in agguato e si può fare strada senza difficoltà anche fra le urne. Ogni suo simulacro più o meno presunto va quindi respinto e combattuto in via pregiudiziale — “assoluta” — dalla “democrazia legittima”. E’ lo stesso atteggiamento dei politici, intellettuali e media Usa che da due anni osteggiano “a prescindere” la presidenza di Donald Trump: dipingendola come un incidente della storia, un pericolo mortale per la democrazia americana “vera e costituita”, da annientare al più presto con ogni mezzo (a cominciare dalla via giudiziaria, rispolverando esplicitamente il modello italiano di Mani pulite).
Salvini e Orbán, nondimeno, hanno dato ennesima sintesi alla loro polemica sull’Europa, incarnandola in un “barbaro” da combattere, anzi da espellere: George Soros, finanziere di origine ungherese, noto fra l’altro per il devastante attacco speculativo alla lira italiana del 1992. E’ lui ad apparire un attendibile “cosmocrate” dei nostri tempi: un europeo trapiantato a Wall Street per lanciare da là la “guerra mondiale” della globalizzazione finanziaria. Quella che avrebbe brutalmente sostituito — principalmente in Europa — la politica con la tecnocrazia, finendo con l’assegnare all’oligopolio bancario apolide (travestito da “libero mercato”) le leve ultime sui destini degli ex Stati nazionali. Soros — per metà gestore di mega-hedge fund; per metà filosofo e mecenate di fondazioni politico-culturali internazionali — rivestirebbe dunque con speciale verosimiglianza i panni del “dittatore” contemporaneo: di “grande fratello” di un capitalismo finanziario globalizzato che non avrebbe più bisogno, come cent’anni fa, di un Hitler o di un Mussolini; e si servirebbe con più sofisticazione di un Obama e dell’ideologia politically correct per preservare la propria egemonia dopo l'”incidente” del 2008 sui mercati finanziari.
Chi è il vero “barbaro”, chi può dare veramente del “barbaro” a chi? Nell’Italia, nell’Europa, negli Usa del 2018 il solo porre la questione offre ormai il fianco ad accuse di connivenza con la “barbarie”. Ma la questione sostanziale resta e se il richiamo al primo dopoguerra mondiale è lecito, esso avverte che il rischio massimo risiede nel rifiuto di affrontare i nodi reali posti dalla storia.
Esattamente cent’anni fa l’Europa — dopo che tutti i contendenti continentali avevano più o meno perso la guerra — perse anche la pace e in molti paesi la libertà, preparando un nuovo e più distruttivo conflitto. Questo avvenne perché governi ed establishment nazionali gestirono con categorie ottocentesche il dopoguerra che segnava invece l’inizio del Novecento: sia all’interno dei sistemi-Paese che nelle relazioni internazionali.
Solo gli Stati Uniti riuscirono ad attraversare il vero momento di passaggio — la crisi finanziaria del 1929 — senza stravolgere il loro sistema e ridisegnando un archetipo di successo della democrazia mista di mercato. Ma il cambio di paradigma politico-economico del New Deal fu comunque drastico almeno quanto brutale fu la Grande Recessione: e sarebbe interessante rivedere chi, in quegli anni, dava del barbaro a chi in America: al Congresso, sui media e nelle università. Quarant’anni dopo, comunque, il paradigma fu di nuovo rovesciato su scala globale dal thatcherismo-reaganismo: e molti difensori odierni del “legittimismo democratico-liberista” erano fra i supporter del “sano sovversivismo” portato dalla nascente finanza di mercato (l’etichetta mediatica barbarian at the gates fu coniata in occasione dell’Opa Nabisco, il primo assalto riuscito da parte di hedge fund e junk bond all’industria tradizionale, alla fine degli anni Ottanta).
E’ in quella transizione “magnifica e progressiva” che, fra l’altro, tre piccole agenzie private si affermano come decisori sovranazionali del rating, del merito finanziario di chiunque sul pianeta. Dieci anni dopo il crack Lehman — il suo più clamoroso fallimento tecnico-politico — il rating detta ancora letteralmente legge: i voti delle tre agenzie di Wall Street, le stesse di allora — rimangono parte integrante della regolamentazione bancaria nell’Eurozona. Ma sono sempre più numerosi coloro che — per usare la terminologia di Cassese — denunciano come “mercato illiberale” quello creato dalla globalizzazione e oggi tenacemente difeso dai istituzioni finanziarie too big per essere controllabili dalle democrazie.
Roosevelt, il salvatore dell’Europa democratica, è stato l’unico presidente Usa ad essere stato eletto quattro volte: una “dittatura democratica” lunga 13 anni, successivamente vietata dalla legge. Eisenhower, che da militare aveva condotto la guerra di liberazione in Europa, da presidente governò con la guerra fredda e il terrore nucleare, tollerando inizialmente una “caccia alle streghe” nella politica interna. Kennedy fu assassinato perché lottava per i diritti civili e l’integrazione razziale, ma aveva deciso anche la guerra in Vietnam. La “democrazia (sociale) di mercato” non è mai stata un “tipo ideale” neppure in quella che è considerata la sua patria. E se deve guardarsi da scivolamenti e corruzioni non può neppure trasformarsi in ideologia né essere tutelata nella presunta ortodossia da custodi autonominati, né divenire arma di scontro politico.
E’ stato ineccepibile il ministro degli Esteri Moavero al Meeting di Rimini quando ha ricordato che l’Italia deve rispettare lo “Stato di diritto europeo” nella partecipazione al bilancio Ue. Gli sta facendo — correttamente — eco il ministro dell’Economia Tria riguardo al rispetto dei parametri Ue per l’adesione all’eurozona. Ma non ha torto neppure chi sostiene che — proprio in democrazia — ogni norma è riformabile, anzi: è fatta per essere riformata. E non può essere imposto, dogmaticamente, un coefficiente numerico fissato un quarto di secolo prima. Il rapporto al 3% fra deficit e Pil dell’euro non è equivalente al 51% del principio democratico universale scolpito ad Atene 2.500 anni fa. La democrazia, fortunatamente, è antichissima e — come sosteneva il “dittatore” britannico Winston Churchill — resta “il peggiore sistema politico salvo tutti gli altri”. Salvo tutti gli altri.