Che vuol dire operare in un contesto di cambiamento continuo per uno Stato? Significa essere tempestivo nell’adeguare politiche, strategie e strumenti.
Il mercato del lavoro italiano, oggetto di numerosi interventi normativi e finanziari da parte di Governi nazionali e regionali, sta cambiando velocemente e significativamente, ma le nostre politiche e le nostre strategie sono lente ad adeguarsi per diversi motivi: tradizionale lentezza burocratica, approccio normativo ai problemi, incapacità di intercettare i mutamenti e le novità e di introdurre adeguamenti, incapacità di uscire dalle tante comfort zone.
Dal 2019 a oggi il cambiamento è stato epocale: abbiamo scoperto che gli inattivi sono più importanti dei disoccupati; i mismatch sono numerosi e diversi per territori, settori e genere; l’offerta di lavoro è in diminuzione dal punto di vista quantitativo/qualitativo rispetto alla domanda; il nostro tessuto economico genera una domanda polarizzata che non trova una risposta nell’offerta di lavoro; i cambiamenti demografici e le norme sulle pensioni ci costringono a operare con una popolazione di lavoratori over 50 e 60, crescente. Nel frattempo ci siamo accorti dell’importanza della formazione (quella vera) e delle competenze che devono essere formate e acquisite e, quindi, dell’esigenza di fornire percorsi formativi di qualità dalla culla alla tomba.
Non c’è adeguata consapevolezza sul fatto che abbiamo diversi mercati del lavoro che richiedono ricette e politiche diverse (a volte nessuna politica) e che se abbiamo al Nord e anche al Centro tassi di occupazione maschile superiori alla media europea, al Sud, terra di continua emigrazione e di “exit only”, i tassi di attività e occupazione sono estremamente bassi. Tali da giustificare la continua emorragia di giovani. Questo dovrebbe portare a un’attenzione al territorio e ai settori, oltre che ai cambiamenti dettati da globalizzazione, trasformazione digitale e transizione ecologica. Se il mercato fallisce, le istituzioni pubbliche riescono a intervenire solo attraverso politiche passive o formazione parcheggio.
L’intervento pubblico nei prossimi anni dovrà caratterizzarsi per la capacità di individuare i problemi e di adottare le misure più efficienti ed efficaci in maniera puntuale. Ancora oggi per pigrizia culturale e per l’incapacità di utilizzare i dati amministrativi si sprecano risorse e fondi che potrebbero essere meglio destinati e utilizzati. Continuiamo trascurare la qualità della spesa e la sua efficacia nel risolvere i problemi.
Non c’è nuova contabilità o nuovi sistemi di valutazione che tengano, se si continua con l’ottocentesco lavoro che si esaurisce nella verifica delle coperture degli interventi. Per sprechi si intendono solo quelli relativi alle spese di funzionamento e ai consumi intermedi. Si pensa sempre di risparmiare attraverso i tagli lineari, chiamati con molta generosità “revisione della spesa”, e non cercando di migliorare l’intervento pubblico. Quanti incentivi e bonus inutili. Nei primi nove mesi del 2024, su 985.737 assunzioni a tempo indeterminato, solo il 16% ha usufruito di agevolazioni. Le restanti 828.428 assunzioni sono, infatti, avvenute senza alcuna agevolazione.
Di fronte a questo contesto i Governi nazionali e regionali si trovano smarriti, non attrezzati e riproducono soluzioni classiche appartenenti ad altre epoche economiche e demografiche, temporalmente vicine ma profondamente diverse.
Non aiuta certamente mantenere approcci separati, a compartimenti stagni: formazione, ricerca, impresa e lavoro devono essere connessi e interdipendenti. Se le imprese si muovono, anche i lavoratori possono e devono muoversi. Così come non dobbiamo registrare solo uscite dall’Italia (brain drain), ma anche attrarre le intelligenze e le specializzazioni degli altri Paesi anche attraverso una politica migratoria qualificante e non improntata esclusivamente su controlli burocratici. Inattività, abbandono scolastico e basso tasso dei laureati devono costituire delle priorità per gli interventi pubblici in materia di lavoro. Così come l’orientamento e i servizi di assessment nelle diverse fasi della formazione e della vita lavorativa.
Non possiamo sprecare capitale umano come avvenuto in passato e non possiamo gestire la formazione come un parcheggio o come una fase circoscritta della vita necessaria per conseguire dei titoli. La formazione si è rivelata sempre più autoreferenziale e un beneficio per i formatori piuttosto che per i discenti. L’adozione dell’IVC (identificazione, validazione e certificazione delle competenze) e quindi l’attenzione alle competenze potranno contribuire a cambiare la formazione e orientarla a dei risultati, in termini di conoscenze e competenze acquisite.
In vite lavorative lunghe serve aggiornarsi e riqualificarsi spesso e spostarsi. Occorre superare l’equivalenza mobilità uguale emigrazione, nella sua storica e negativa accezione. Le nuove politiche dovranno aumentare il matching tra domanda e offerta anche attraverso una mobilità territoriale accompagnata da interventi privati e pubblici per piani di edilizia residenziale per lavoratori. Ricordando a tutti, già dall’età scolastica, che dalla quantità e qualità del lavoro dipenderà l’adeguatezza del trattamento pensionistico e la qualità della vita da pensionati.
Sistemi informativi e banche dati pubbliche (Stato, Regioni, Inps, Agenzia delle Entrate) e private dialoghino e siano interconnesse, ma soprattutto consentano agli operatori della formazione e del lavoro di intervenire sulla base di dati e non alla cieca sprecando risorse.
Occorre superare definitivamente le storiche divisioni tra pubblico e privato o tra Stato e regioni. È ora di abilitare e responsabilizzare tutti i soggetti previsti sin dal “decreto Biagi” nell’attivazione e valorizzazione delle persone. Abbiamo visto pochi partenariati, soprattutto dove servirebbero. La profilazione e l’assessment probabilmente si faranno grazie all’intelligenza artificiale e a piattaforme sempre più accessibili e utilizzate, così come l’orientamento. Non si tratta di ostacolare o subire le innovazioni, ma di valorizzarle abilitando sostanzialmente, e non solo per legge, i diversi operatori pubblici e privati, rivedendo il ruolo dei Centri per l’impiego, ormai superati dalla storia.
Oggi le risorse non mancano. Abbiamo tantissime risorse in materia di lavoro, dal Pnrr ai fondi Sie, ma spesso finanziano azioni vecchie e statiche. I tempi della programmazione e di attuazione dei fondi europei, gli unici disponibili, vincolano e spesso pregiudicano un intero decennio. Qualunque cosa accada di nuovo le misure finanziate sono quelle stabilite in piani e accordi “vecchi” di almeno sei o sette anni.
Il nuovo mondo mette in discussione i vecchi strumenti e la vecchia tempistica delle nostre politiche attive. L’intervento pubblico in materia insegue sempre più le emergenze e i fenomeni, ma non riesce a prevenire le crisi. Troppo statico e settoriale nonostante gli sforzi effettuati a livello centrale.
Superando le vecchie paratie tra formazione e lavoro, occorre responsabilizzare i singoli sulla necessità di accedere a percorsi di formazione, studio, impresa e lavoro che garantiscano l’occupabilità, tenendo presenti le vecchie sfide come i divari di genere, geografici e generazionali e la nuova “era” costituita da robot e dall’ AI. Urge, infine, la presenza di politici, dirigenti e tecnici preparati, adeguati e innovatori di cui si avverte la mancanza.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.