A Genova si tiene, nell’ambito del processo sul crollo del ponte Morandi, la deposizione dell’ex amministratore delegato di Autostrade per l’Italia, Giovanni Castellucci, che – nello stupore dell’associazione dei parenti delle vittime – afferma: “Mi sento tuttora responsabile ma non colpevole. Responsabile su quello che era la gestione del ponte e, in quanto custodi del bene, questa responsabilità me la sento”.
È chiaro che sarà la giustizia a definire con precisione il perimetro delle responsabilità fin qui evocate, ma è altrettanto chiaro che esiste un profilo morale che oggi, a sette anni di distanza da quel terribile 14 agosto del 2018, è possibile scandagliare con attenzione e precisione.
Il ponte Morandi non crollò per una fatalità, ma per un preciso processo di trascuratezze e incurie che coinvolsero direttamente i gestori di quell’infrastruttura. Se questo è evidente, nulla si può invece affermare circa la colpa di quei gestori. Colpa e responsabilità sono due nozioni fondamentali della morale. La responsabilità descrive la caratteristica intrinseca ad ogni atto morale: per il fatto che ciascuno di noi vive su questo pianeta, risponde di quello che fa, ha degli interlocutori cui rendere conto delle proprie azioni. E poco importa che questi interlocutori siano consapevoli o ignari: le azioni dell’uomo si svolgono sempre dinnanzi ad altri e con questi altri sono chiamate a misurarsi e a definirsi.
Nel crollo del ponte Morandi esistono responsabilità da individuare e responsabilità già individuabili, ma spetta ai processi definire il perimetro delle une e delle altre. La giustizia umana, infatti, ha il compito di procurare alla comunità un rapporto ragionevole col dolore e il tempo che passa contribuisce a costruire il perimetro di questo rapporto, che non può essere causato da una reazione o da una sommaria condanna, ma dall’appassionata ricerca di una verità che porti pace, che porti ordine, che porti giustizia.
Altro discorso, invece, merita la parola “colpa”. Essa descrive una precisa imputazione morale che implica espiazione, radicale trasformazione della volontà del reo. Le colpe non sono nelle mani della giustizia degli uomini, ma sono un affare a tre tra la coscienza delle persone, le leggi positive che aiutano l’uomo a comprendere che cosa sia bene e che cosa – al contrario – del bene sia la negazione, e Dio.
Già, la colpa è un affare di Dio. È qualcosa che trascende la storia e le necessità umane, perché ha a che fare con un gesto che ha ripercussioni nell’eternità, in una dimensione in cui non possono giungere nemmeno le pene degli uomini, ma che spettano a qualcosa che è Oltre e che è Altro.
Castellucci, in questo senso, commette un fallo di reazione, perché definisce qualcosa che non è nelle sue mani: nessuno si può condannare nell’eternità e nessuno si può assolvere. Tutti possono rimettersi ad un giudizio più grande che nessuno conosce e al quale l’umano – finito e definito dalla storia – può rivolgersi con quel timore che non è paura, ma è speranza.
Speranza di trovare nella colpa, nella propria colpa, qualcosa di felice. Felice non è l’atto che è stato compiuto, meritevole di colpevolezza, ma è la colpa stessa, motore e motivo di un’iniziativa gratuita e impensabile di Dio che da quel gesto decide di ripartire. Ed è questo il vero rispetto per chi non c’è più: trasformare quella morte orrenda e imperdonabile in un’assurda possibilità di vita.
Castellucci non vuole colpe. Verrebbe da dire che vuole solo punizioni e non è interessato al perdono. Che, si sa, è l’unica medicina che Dio conosce per rimettere in moto la storia. Quella medicina che mancò nella gestione del ponte Morandi, al punto tale che l’incuria e la cattiveria lo travolsero, condannandolo per sempre a diventare un sinonimo di morte. Dinnanzi al quale colpe e responsabilità sembrano essere qualcosa di troppo piccolo. Qualcosa che, in fondo, ha ancora oggi – dopo sette anni – bisogno di speranza.
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