Caro direttore,
il professor Agostino Giovagnoli – fra l’altro autorevole interlocutore del Sussidiario – ha proposto ieri su Avvenire una riflessione non più a caldo sull’esito dell’ultimo referendum. L’intervento – certamente all’occhio del lettore che qui scrive – è di grande interesse laddove stimola direttamente i cattolici italiani a utilizzare il test elettorale per interrogarsi sul proprio modo di vivere oggi la presenza pubblica e l’impegno politico.
Fin dalla prima riga di un editoriale che non teme spunti polemici, Giovagnoli lamenta “tanta paura del dialogo, del confronto e della discussione … che sembra prevalere nei commenti sul referendum”. Avverrebbe così che “ignorando il merito dei quesiti referendari, si interpretano i risultati in chiave di mera prova di forza”. Analogamente, l’autore critica l’irrisione di “chi ha scelto di andare a votare” e respinge ogni lettura che “annette tout court i votanti alle fila dell’opposizione”.
Sono tutte osservazioni chiare e focalizzate, dalle quali è difficile dissentire in via di discussione. Ma non pare possibile dimenticare che sono stati i promotori stessi del referendum a impostare fin dapprincipio la campagna referendaria in chiave di “spallata al governo”. E la polemica sul dovere di voto – cioè sulla sua libertà – è iniziata prima di domenica scorsa ed è stata puntata preventivamente contro chi non volesse recarsi alle urne.
Fino a sabato era chi non fosse intenzionato a votare a finire annesso tout court alle fila degli elettori del presidente del Senato Ignazio La Russa. Un argomento di più per marcare l’operazione-referendum come d’opposizione politica: ciò che sarebbe stato d’altronde enfatizzato all’ennesima potenza se per caso il quorum fosse stato raggiunto.
È avvenuto così che un osservatore altrettanto autorevole come il giurista Sabino Cassese – in un column sul Corriere della Sera di giovedì – abbia sottolineato questo approccio fra i fattori individuabili per spiegare la bassa affluenza alle urne, decisiva per il fallimento del referendum.
Secondo Cassese – collega alla Corte Costituzionale del presidente Sergio Mattarella, che notoriamente continua a stimarne le opinioni – il mancato raggiungimento del quorum assumerebbe addirittura “un significato positivo” allorché risultasse l’espressione di un elettorato democraticamente contrario a “una richiesta referendaria nascosta o insincera”.
È lo stesso argomento usato da chi ha considerato un errore grave, da parte dei referendari, l’assortimento di quattro quesiti tecnici sul Jobs Act con una domanda estemporanea sulla cittadinanza ai migranti. È la questione problematica sorta sabato, quando gli stessi soggetti promotori del referendum hanno organizzato una manifestazione di piazza nelle ore del silenzio pre-elettorale con il pretesto di contestare Israele.
Perché un elettore italiano – un cattolico italiano – avrebbe dovuto sentirsi obbligato a esprimere una sua “fede” (il favore all’accoglienza dei migranti) attraverso la partecipazione a un referendum estremamente politicizzato lanciato da Pd, Avs, M5s e Cgil contro la maggioranza di governo? Perché il suo “sì” ai migranti avrebbe dovuto finire strumentalizzato da forze spesso avversarie dalla Chiesa e dalle presenze sociali e politiche dei cattolici?
Giovagnoli non ha certo torto quando sottende che molti più italiani (molti più cattolici) di quelli emersi dalle urne della “quinta scheda” sono favorevoli sulla corsia veloce per la cittadinanza ai “nuovi italiani”.
Ancora Cassese – per rintuzzare chi ha accusato un quorum “troppo alto”, ancorché previsto dalla Costituzione – ha invitato a una riflessione generale sul ruolo e sull’uso dei referendum nella democrazia repubblicana. Ne ha rammentato il numero elevato (77 in 79 anni) ma, soprattutto, ha nuovamente negato che sia riscontrabile una specifica patologia democratica nella scarsa affluenza.
Questo in uno scenario in cui “la maggior parte della popolazione” appare “convinta della bontà della Repubblica parlamentare e ritiene che decisioni del tipo di quelle proposte vadano prese, dopo accurato dibattito, dalle persone che essa ha inviato in Parlamento”.
La questione – all’interno dell’architettura costituzionale di una democrazia parlamentare, fra l’altro costruita in via determinante dai cattolici democratici – non è nuova: l’esercizio del potere legislativo diretto (anche nella sola forma abrogativa) non costituisce la normalità del confronto democratico, ma solo l’eccezione; e i rischi di abuso sono sempre in agguato. Le grandi questioni politico-sociali del Paese – l’accoglienza dei migranti è senz’altro una di queste – vanno affrontate in Parlamento: non attraverso referendum.
È quanto Giovagnoli giustamente auspica, sollecitando “dialogo, discussione e confronto” a valle di un passaggio referendario che non deve trasformarsi in un “muro”.
Però riaprire in Parlamento il dossier cittadinanza non pare poter prescindere da una presa d’atto approfondita che la scorciatoia referendaria e la sua politicizzazione si sono rivelate forzature e manipolazioni perdenti. Nonché, con più di un’evidenza, divisive fra i cattolici sul versante politico.
Cattolici italiani che sono invece sicuramente uniti nella prospettiva della crescita della società italiana attraverso l’integrazione di migranti “fratelli tutti”, in coerenza con il magistero sociale della Chiesa.
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