Sulla prima pagina della Stampa di sabato campeggiava una grande foto di Anna Foa. La storica israelita è stata ospite al Salone del Libro di Torino e il quotidiano ne ha tratto spunto per un titolo di condanna a 360 gradi di tutte “le parole della guerra”, quando “l’identità scatena conflitti”. Anzitutto a Gaza.
È impossibile non associarsi all’appello di Foa. Non senza annotare che sull’autrice de “Il suicidio di Israele” – edito da Laterza nell’ottobre scorso – i fari mediatici sono rimasti finora quasi spenti. La sua denuncia allarmata della reazione del Governo di Gerusalemme all’attacco di Hamas è sempre stata oscurata dalle grandi firme ebraiche del giornalismo italiano: irriducibili nel difendere il diritto pieno di Israele a “difendere la propria sicurezza” e nell’accusare di antisionismo/antisemitismo qualunque voce critica.
Anche quando, dopo quasi 600 giorni di guerra, il prezzo in vite palestinesi – in gran parte civili – ha ormai superato di cinquanta volte quello pagato da Israele il 7 ottobre 2023. Anche quando la stampa israeliana d’opposizione alza ogni giorno il tono degli allerta sulla tenuta democratica dello Stato ebraico, governato da una coalizione di estrema destra a sfondo nazionalistico-religioso, fra derive autoritarie e razziste verso i palestinesi dei Territori.
Sulle prime pagine dei grandi quotidiani italiani, da anni, la testimonial quasi esclusiva dell’ebraismo è la senatrice a vita Liliana Segre. La quale – in quanto reduce della Shoah – non ha mai avuto obbligo alcuni di render conto a nessuno del perché e del come continua a tenere viva la Memoria del più grande genocidio della storia dell’umanità. Perché nessun genocidio abbia mai più luogo. Perché la malapianta dell’antisemitismo non proliferi e venga infine estirpata.
Ha reagito con compostezza, la senatrice, anche quando un’eccezionale visibilità si è ritorta a boomerang sotto forma di attacchi sempre più intensi e vasti da parte della sinistra pro-pal italiana: passata in breve da sua fan a sua contestatrice. Questo perché Segre – sempre angosciata per tutti i bambini del Medio Oriente in fiamme – ha sempre voluto distinguere fra sospetti di “crimini di guerra” e di “genocidio” e non ha mai dimenticato che il massacro iniziale è stato perpetrato dai terroristi antisemiti. Non può essere dunque rivolto a lei per nessuna ragione un memo riguardante la “staffetta” mediatica a favore di Foa nel ruolo di icona israelita da prima pagina.
Se a Segre non ha mai certamente fatto difetto la buona fede, è invece lecito interrogarsi sulla strumentalizzazione partizan che ne è stata fatta da alcune forze politiche e da alcuni media. Quelli che hanno alimentato – attraverso la sua voce votata alla lotta contro l’antisemitismo – continue fatwe contro un “odio nero” che sarebbe stato incarnato dai soli partiti italiani di centrodestra.
Quelli che hanno fragorosamente applaudito – non è escluso dopo aver spinto – la senatrice quando ha voluto prendere la parola a palazzo Madama per salutare il ribaltone di governo del 2019 come svolta “anti-nazista” in una democrazia supposta in pericolo. Quelli che l’hanno posta a capo di una commissione parlamentare sui fenomeni di odio, non per produrre un moderno disegno di legge contro antisemitismo e razzismo – che l’Italia ancora attende -, ma per dotare il centrosinistra di un’arma di distrazione mediatica utile in qualsiasi istante per attivare campagne politiche qui e ora; nulla a che vedere con gli orrori della prima metà del secolo scorso.
“Gli ebrei del mondo, di quella diaspora che si riempie la bocca di etica ebraica e di pensiero ebraico come possono accettare senza reagire i morti di Gaza, opera di uno Stato che si proclama democratico? Come possono parlare dell’antisemitismo senza guardare a ciò che in questo momento lo fa divampare, la guerra di Gaza?”. Lo ha scritto Foa nelle pagine finali de “Il suicidio di Israele”: un volume mai rabbioso e invece soprattutto dolente.
Vi sono pochi dubbi che Foa e Segre siano accomunate da una stessa sofferenza, oltre ogni possibile strumentalizzazione. Dall’ansia che la guerra di Gaza – comprese le guerre mediatiche collaterali combattute nei Paesi della diaspora – possa aver distrutto non solo migliaia di case e di vite, ma anche un pezzo alla Memoria della Shoah.
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