Il 4 gennaio, la riunione Opec+ ha deciso di aumentare la produzione per il mese di febbraio di 400.000 bpd (barrel per day), in linea con la politica già stabilita dal cartello e ratificando sostanzialmente quanto stabilito nella riunione del 2 dicembre scorso.
La decisione conferma, da un lato, una cauta fiducia nella ripresa della domanda globale, dall’altro la convinzione che la variante Omicron costituisca una minaccia minore rispetto alle altre varianti (anche se più contagiosa) e non dovrebbe compromettere quindi l’andamento della domanda di greggio. Inoltre, secondo una nota di stampa, vi sono state pressioni da parte Usa per aumentare l’offerta complessiva così da evitare l’incremento eccessivo del prezzo e tentare di porre un freno all’aumento del costo del carburante alle pompe di benzina, che avrebbe come irrimediabile conseguenza quella di un elettorato sempre più indispettito.
Una nota stampa ha altresì comunicato che, nel corso del meeting, è emersa una certa difficoltà da parte di alcuni paesi, in particolare Nigeria, Angola e Russia, nel raggiungere la maggiore quota di produzione richiesta. Sembra quindi che l’output effettivo sarà inferiore a quello nominalmente previsto dalla decisione del cartello: alcuni analisti ipotizzano incrementi solamente di 130.000 barili giornalieri nel mese di gennaio e di altri 250.000 nel mese di febbraio.
La produzione di petrolio nei primi tre mesi dell’anno dovrebbe superare la domanda mondiale di 1,4 milioni di barili al giorno (la valutazione precedente era di 1,9 milioni). Aumentare la produzione nonostante la situazione di surplus non preoccupa l’Opec, dal momento che attualmente le scorte dei paesi sviluppati sono più basse, di circa 85 milioni di barili, rispetto alla media passata.
Nel complesso le scorte mondiali a disposizione, quelle a inventario, si sono infatti ridotte drasticamente nel corso del periodo pandemico. Negli Usa si stimano ridotte di circa 75 milioni di barili solo nel 2020. Da qui anche la preoccupazione degli Stati Uniti nel caso in cui dovesse persistere o aumentare la domanda globale, vista la ridotta capacità produttiva di alcuni paesi nel raggiungere la quota di bpd stabilita dal cartello e la drastica riduzione complessiva delle scorte.
Indipendentemente da considerazioni di politica monetaria che la Fed adotterà per cercare di arginare il tasso di inflazione, oggi vicino al 7%, non vi è dubbio che petrolio e gas si trovano sotto una pressione di tendenza al rialzo dei prezzi.
E la motivazione è riconducibile sostanzialmente al Ciclo del capitale tipico del settore petrolifero, che ha visto dal 2014 in poi una drastica riduzione delle spese a titolo di investimento, le Capex, soprattutto da parte delle grandi imprese appartenenti all’upstream.
Secondo S&P Capital IQ, le major del settore, che avevano triplicato tra il 2004 e il 2014 le spese a titolo di investimento in capitale, portandole a 294 miliardi di dollari, le hanno drasticamente ridotte a 111 miliardi nel corso del 2020. Le Capex stimate per il 2022 consentiranno di raggiungere circa 135 miliardi, con un incremento di quasi il 21,6% anno su anno, ma siamo ben lontani dai picchi del 2014.
Gli analisti di Bank of America si attendono un aumento delle spese per perforazione e completamento dei progetti del 22% nel 2022, il che vorrebbe dire tornare a livelli che non si vedevano dal 2006.
Non è però scontato che questo possa compensare la carenza di capacità produttiva che ha iniziato ad emergere non appena la domanda ha ripreso vigore, spingendo i prezzi verso l’alto. Tutto il settore dello “shale oil” statunitense (petrolio di scisto, cioè quello prodotto da frammenti di rocce di scisto bituminoso, ottenuto attraverso il processo produttivo del “fracking”, fratturazione idraulica) è in profondo rosso.
Secondo dati forniti dalla U.S. Energy Information Administration, EIA, negli Usa, nel luglio 2021 vi erano 5.957 “pozzi” “Drilled but Uncompleted Wells”, DUCs, cioè siti perforati ma non ancora completati. Erano ben 8.900 nel 2019, il picco massimo raggiunto. Tutto ciò implica che, a questi livelli, i produttori dovrebbero aumentare la perforazione a ritmi vertiginosi, per sostenere la produzione ante-pandemia. La conseguenza economica sarebbe rappresentata da un nuovo incremento degli investimenti, spinti dall’aumento della domanda e dei prezzi, che porterebbe ad un incremento dell’offerta a un livello tale da invertire il medesimo Ciclo, riducendo prezzi, Capex e utili.
Ma, come se non bastasse, a rendere ulteriormente più complicata la situazione per i produttori di “shale” statunitensi, dobbiamo ricordare in quale ambiente ostile complessivamente essi si trovino. Consideriamo che, secondo logica economica, essi si dovrebbero preparare ad incrementare le spese per investimenti in nuovi “rig wells drilling”. Tuttavia il capitale finanziario a disposizione per l’industria è costantemente in diminuzione. È sempre più difficile trovare finanziamenti bancari a Wall Street disposti a sostenere i fabbisogni finanziari del settore.
D’altronde l’orientamento molto duro che l’amministrazione Biden ha assunto già in campagna elettorale nei confronti dell’intera filiera petrolifera (obbedendo alla nuova “religione” mondiale del green e dell’Esg) sta mettendo in ginocchio un’industria che potrebbe approfittare del nuovo Ciclo dei prezzi e del capitale per risollevarsi dopo un estenuante periodo.
Ricordiamo che tra il 2014 e il 2016 l’intero settore ha dovuto di fatto fronteggiare una “guerra del petrolio” (al ribasso) che l’Arabia Saudita aveva incautamente ingaggiato con l’industria “shale” statunitense, con il fine di distruggere l’autonomia petrolifera americana e mantenere inalterato il suo primato. La fine della guerra ha lasciato un’industria Usa in ginocchio ma viva e un’Arabia Saudita che, nel frattempo, ha più che dimezzato le sue preziosissime riserve in dollari.
Nessun vincitore quindi e forse, politicamente, l’Arabia Saudita è quella che ne ha pagato il prezzo maggiore, sia in termini di fiducia da parte del suo principale alleato in virtù degli accordi del 1945, sia in termini di prestigio all’interno dei membri dello stesso Opec.
Fatto sta che, in un momento in cui emissari statunitensi, alla vigilia del meeting Opec+ dello scorso 4 gennaio, fanno pressioni per aumentare la quantità giornaliera di bpd, temendo che una domanda crescente possa non trovare un’offerta sufficiente a soddisfarla, in un momento in cui i prezzi della benzina alle pompe sono i più alti degli ultimi 7 anni per l’elettorato americano, possiamo ben capire come i maggiori rappresentanti dell’industria petrolifera statunitense non prendano molto bene l’atteggiamento dell’amministrazione Biden e siano molto restii ad incrementare gli investimenti in tale situazione.
La volontà politica per distogliere capitale a disposizione dell’industria dell’upstream Usa (Exploration and Production), la virata (ideologica, ci verrebbe da dire) verso un “all green” a tutti i costi, implicano una pressione costante al rialzo dei prezzi dell’energia, stante la previsione di una domanda stabile.
Solo un aumento degli investimenti potrebbe costituire entro il 2022 un elemento per limitare l’aumento incontrollato dei prezzi (salvo decisioni Opec+ tendenti a destabilizzare il mercato con l’intento di colpire l’industria americana), ma le condizioni per vedere crescere gli investimenti probabilmente non ci sono.
Un cambiamento drastico di politica monetaria potrebbe infatti generare nel 2023 un aumento degli indici di stress finanziario all’interno del sistema economico Usa. Se l’industria “shale” nel suo complesso si trovasse ad affrontare aumenti dei livelli di debito considerevoli per finanziare Capex, trattandosi di un settore i cui corporate bonds sono per la maggior parte appartenenti alla categoria High Yields, lo spread con gli investment grade bonds potrebbe salire in maniera considerevole e le probabilità di default attese con esso. L’incertezza, quindi, regna sovrana per questa industria nel suo complesso.
Proiettando per il 2022 una domanda stabile o in leggero aumento, e molto dipenderà dalla situazione economica cinese, anche ipotizzando a livello globale un incremento degli investimenti tesi a rinvigorire estrazione e produzione (e tutta la filiera, midstream e downstream), i prezzi dovrebbero mantenere una pressione verso l’alto. Interventi restrittivi di politica monetaria raffredderanno la domanda (ma fino a un certo punto), potrebbero costituire un contro bilanciamento e permettere ai prezzi del greggio di mantenere i livelli più “quotati” tra i forecasters di professione di Wall Sreet, cioè 80-85 per il Brent e 75-80 per il Light.
Ma sono anche possibili livelli a tre cifre, che non si registrano da un bel pezzo, i 100-120 dollari: tecnicamente, osservando il grafico a lungo termine, è infatti ipotizzabile il proseguimento del rialzo anche oltre i target indicati dagli analisti fondamentali.
Dando un’occhiata al grafico del Brent su timeframe settimanale a titolo esemplificativo, il settimanale mostra l’importante resistenza in area 86-87 dollari. Se interpretiamo le oscillazioni visibili sul grafico del Brent dal 2016 come un “doppio minimo” (figura formata da due minimi allineati sugli stessi livelli), il target, una volta rotta la resistenza, potrebbe posizionarsi almeno 50 dollari più in alto, quindi in area 135 dollari. La figura grafica non è ancora attiva, perché il “doppio minimo” venga completato, e ne vengano attivate le implicazioni rialziste, è necessario infatti il superamento del picco intermedio rispetto ai due minimi, quindi il massimo del 2018. Il target obiettivo ricavato dal punto di vista tecnico va poi necessariamente declinato con la situazione contingente globale.
Riteniamo tuttavia che i 120 dollari al barile siano un prezzo tecnicamente plausibile se perdurassero i disequilibri di cui abbiamo fatto cenno sopra.
Tornando ad aspetti puramente grafici, notiamo tuttavia una divergenza tra la successione dei massimi del grafico nell’ultimo swing rialzista del settimanale, quello realizzatosi nel 2021, e i massimi dell’indicatore Rsi a 14 periodi. Questa “divergenza” potrebbe suggerire un segnale di perdita di momentum del rialzo dei prezzi e costituire la premessa per un piccolo consolidamento in area 75-80, se non di una vera e propria correzione che verrebbe anticipata da discese al di sotto della base di questa fascia.
Insomma, il quadro grafico presenta una situazione potenzialmente esplosiva al rialzo, ma per la realizzazione della quale mancano ancora conferme. Senza il superamento di area 87 dollari (da confermare con almeno una chiusura di settimana oltre la resistenza) il rischio di un ritorno verso la porzione centrale della fase laterale degli ultimi anni, quindi in area 50 dollari, non si può escludere, con segnali in questo senso sotto area 74 dollari.
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