Mentre la Corte Penale Internazionale (ovvero la CPI) resta al centro di feroci critiche da buona parte dei paesi occidentali alleati ad Israele, a gettare ulteriore discredito sulla Corte ci ha penato un’ex assistente del Procuratore Capo Karim Khan che diversi mesi fa l’aveva accusato formalmente di violenza sessuale raccontando – e ci torneremo – di diverse occasioni in cui il 55enne britannico l’avrebbe costretta ad avere rapporti sessuali con lui: una questione – appunto – nota negli ambienti già da diversi mesi, ma che è stata resa pubblica solamente in questi giorni dal Wall Street Journal; mentre dal conto suo – naturalmente – Karim Khan ha negato ogni accusa.
Partendo proprio dal racconto della vittima – un’ex assistente che il Journal descrive essere sulla trentina, sempre al fianco del Procuratore nelle occasioni diplomatiche di alto livello – il primo (presunto) abuso risalirebbe al dicembre del 2023: al centro di numerose critiche per la sua intenzione di muovere causa contro il leader israeliano, Karim Khan incontrò la vittima in un albergo che provò a farlo desistere dal suo piano di perseguire legalmente Netanyahu e proprio in quel momento fu violentata.
Il racconto della (presunta) vittima di Karim Khan: “Dopo la denuncia, fece pressioni affinché ritrattassi”
Karim Khan – secondo il racconto della vittima – l’avrebbe prima toccata replicando un comportamento che adottava ormai da diversi mesi, ma poi si sarebbe spinto a trascinarla verso il letto ignorando le sue lamentele costringendola a consumare un rapporto sessuale: lo stesso copione si sarebbe ripetuto in diverse altre occasioni (non ci è dato sapere quante), con la vittima che ha citato in particolare i viaggi diplomatici a New York, Colombia, Congo, Ciad e Parigi; citando anche diverse volte in cui sarebbe stata stuprata nella residenza all’Aia della moglie di Karim Khan.
Sul perché non abbia raccontato prima quanto accaduto, la presunta vittima di Karim Khan ha spiegato che aveva paura di perdere il prestigioso posto di lavoro che si era guadagnata alla CPI decidendo di farsi avanti solamente quando il tutto è diventato insostenibile: dopo che la notizia ha iniziato a circolare tra gli uffici dell’Aia – peraltro – la vittima sostiene di aver subito pressioni dallo stesso procuratore affinché ritirasse le accuse; facendo leva (in alcuni casi) sulle vittime palestinesi in attesa di giustizia, con una telefonata in cui le avrebbe detto chiaramente “pensa ai mandati di arresto palestinesi”.
Quasi ovviamente, dal conto suo Karim Khan ha negato pubblicamente ogni accusa e a fronte di chi nota quanto le accuse mosse a suo carico – già note all’interno della stessa CPI da diversi mesi – abbiano anticipato di un paio di giorni la scelta di annunciare la causa legale contro il premier israeliano risponde ricordando che – in realtà – aveva già informato gli USA della volontà di perseguire Netanyahu a marzo, prima delle accuse dell’ex assistente; mentre i suoi legali hanno parlato di accuse strumentali per “screditarlo e distruggere la sua reputazione” in una sorta di punizione per “l’emissione dei mandati di arresto”.