PRODUZIONE VACCINI IN ITALIA/ Dal partito del Pil una mossa economica in chiave Ppe
Domani al Mise si torna a parlare di possibile produzione in Italia dei vaccini anti-Covid. Una partita importante per l’industria e la politica del nostro Paese

Proprio un mese fa, scrivevamo su queste pagine che l’Italia ha le caratteristiche per contribuire alla produzione mondiale del vaccino. Non solo ricerca e brevetti quindi – si pensi ad esempio a ReiThera o al brevetto annunciato pochi gironi fa dall’Università degli Studi di Milano – ma anche fabbricazione del farmaco anti-Covid. Da questo punto di vista, le risorse del Recovery Plan sono preziosissime: sono una concreta possibilità di sviluppo economico per il Paese, proprio attraverso quei comparti in cui più eccelle ed è protagonista nel mercato globale. Quello farmaceutico è uno di questi.
A tal proposito, si è appreso nelle ultime ore che il neo titolare del Mise Giancarlo Giorgetti ha convocato Farmindustria per domani 25 febbraio: oggetto dell’incontro, la produzione dei vaccini in Italia condivisa a livello europeo, con la Commissione che si farebbe carico del problema licenze. Le ipotesi al vaglio sono (1) di convertire gli stabilimenti che producono l’antinfluenzale e (2) di spostare in Italia una parte del processo produttivo dei vaccini, con un meccanismo di incastri che coinvolga anche altri Paesi.
Al di là di quale possa essere lo sviluppo di questo incontro di domani – il Presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi è molto cauto, ma ciò non significa che non vi siano possibilità – le ragioni per cui seguire con attenzione questa situazione, e altre che potrebbero presentarsi nel breve termine, sono in particolare due e interconnesse tra loro.
La prima è più propriamente economica. Tra i pilastri che animano il Recovery Plan – oltre a innovazione digitale e sviluppo sostenibile – vi è l’obiettivo dell’Europa di rispondere alla riconfigurazione della globalizzazione. Sin dai suoi albori, il programma Green New Deal – questo il nome che gli aveva dato la Commissione Juncker e con il quale a novembre 2019 Ursula Von der Leyen si è presentata al Parlamento Ue – aveva tre obiettivi che poi confluiscono nel Recovery Plan e che trovano una potente accelerazione durante i mesi di marzo, aprile e maggio 2020. È utile ricordare l’origine del Green Deal – stiamo parlando più o meno di 3 anni fa – perché è proprio con la fine del 2017 che inizia la fase della crescita debole in Europa e il commercio mondiale trova quel rallentamento che giunge poi al crollo nei mesi del primo lockdown dell’anno scorso. La conseguenza di questi due fattori – unitamente alla spinta protezionistica dell’America First di Trump – è la progressiva regionalizzazione dell’economia in corrispondenza delle grandi piattaforme produttive: Usa, Cina ed Europa. È soprattutto per questa ragione che l’Europa spinge per rilanciare la sua industria – anche in ottica di innovazione e sostenibilità -, per rigenerare e consolidare il suo mercato. Concretamente, ciò significa (anche) ridisegnare la produzione in Europa: in questo senso non è casuale la fusione FCA-PSA come non è casuale che, circa la produzione di vaccini, il nostro Paese ne sia direttamente coinvolto. Siamo infatti non solo il secondo Paese manifatturiero d’Europa ma siamo anche eccellenti produttori proprio nel settore della farmaceutica, dell’automotive – più componentistica che auto a dire il vero -, ma anche nel chimico, macchine automatiche, meccanica di precisione, ecc. È evidente che, da questo punto di vista, la nuova politica economica europea, che supera l’austerity, è una grande occasione per l’Italia.
La seconda ragione per cui questa situazione in divenire è molto interessante è più propriamente politica e, come si diceva prima, è direttamente connessa alla precedente. Tra gli Stati membri, l’Italia beneficia dell’investimento più importante del Recovery Fund europeo, non per niente il commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni ha più volte detto “in Italia non si può fallire” e non a caso, a ridosso della presentazione del piano italiano, è arrivato Mario Draghi. È in ragione di una nuova stagione alle porte – inaugurata dall’accordo europeo di maggio 2020 che stanzia le risorse per il Next Generation EU (nome con cui si preferisce riferirsi al Recovery Plan) – che dentro l’ampia maggioranza che sostiene questo Governo sta crescendo la componente non solo europeista ma anche produttivista, ciò che da tempo Dario Di Vico chiama “il partito del pil”. Si dà il caso che lo sviluppo economico sia proprio guidato dal ministro Giancarlo Giorgetti, importante esponente di un partito, la Lega, fortemente coinvolto in questa decisiva trasformazione che la porterà – questo l’obiettivo ultimo – a entrare nell’alveo del Partito popolare europeo. Anche perché le esigenze del nord produttivo, che la Lega ha da sempre in qualche modo rappresentato, collimano più che mai con le speranze del nuovo ciclo economico in cui l’industria italiana – in particolar modo la PMI lombarda, veneta ed emiliano romagnola – ha la grande opportunità di crescere la sua integrazione con l’industria europea, soprattutto tedesca. È naturalmente un cambiamento che toccherà molti spazi, anche a sinistra, ma la metamorfosi della Lega sarà decisiva nella configurazione del nuovo assetto politico che si definirà nel giro di un anno e mezzo al massimo, prima delle prossime elezioni.
Nuova Europa e nuova Italia quindi: auguriamoci che l’operazione dia quei frutti che sono auspicio largamente condiviso da Bruxelles a Roma e da chi vuole ancora bene a un Paese oggi debole e in difficoltà. La recente nomina di Mario Draghi ha introdotto condizioni per quella collaborazione politico-istituzionale che abbiamo a lungo evocato senza la quale non ci può essere inversione di rotta. È fondamentale che questo concorso di forze diverse sia prospero e longevo, deve avviare la ripresa italiana che sarà poi portata avanti da chi vincerà il prossimo round elettorale. Un eventuale fallimento di questa fase produrrebbe conseguenze inimmaginabili.
Twitter: @sabella_thinkin
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