Caro direttore,
sabato 1 febbraio, è stata un’altra giornata particolare nella casa di reclusione di Bollate. Questi episodi si moltiplicano ultimamente qui dentro, in galera, un luogo che da fuori è visto come l’inferno, abitato da dannati (anche da dentro a dire il vero), come se il male non fosse, in fondo, l’ultima parola sulle pagine della vita degli uomini, nemmeno dei reietti, degli ultimi, dei dimenticati. Ed è anche vero che dove abbonda il male sovrabbonda la grazia.
Non è nemmeno che la realtà cambi, è pur sempre una galera, ma cambiano gli occhi di chi guarda, come mi ha ricordato il mio amico Roberto, un detenuto che in 5 minuti di dialogo ha sintetizzato un giudizio, che a me per formularlo sono occorsi mesi.
Al teatro, un centinaio, tra detenute e detenuti, in rappresentanza degli oltre 1.500 ospiti, hanno voluto salutare Don Fabio, il cappellano che dal 2002 accompagna le donne e gli uomini ospiti di questo Istituto e che è stato destinato ad altro compito. Succede nella vita “professionale” di un prete, di cambiare ambito di “lavoro” e questa notizia potrebbe occupare tre righe, forse anche meno, di cronaca negli avvisi parrocchiali. Ma qui è successo ben altro.
Faccio il mio ingresso nella sala già gremita, riconosco facce amiche tra i detenuti che invece sono lì da un pezzo perché la macchina organizzativa degli spostamenti interni si attiva per tempo, dovendo giustamente garantire la sicurezza, tenere ben separati i detenuti dagli ospiti esterni, anche dai volontari. L’istinto sarebbe di sederti vicino a loro, ma non si può fare. Sono piccole cose che ti ricordano sempre che sei ospite anche tu e devi seguire le regole della casa.
Accettare questo mi fa finire negli ultimi spalti in alto, lontano da tutto e da tutti, ma dopo un attimo di disappunto, riconosco che la posizione è favorevole per vedere le cose con quella distanza necessaria per afferrarle totalmente.
Comincia la festa con il canto “gracias a la vida”, il cui ritornello, a ogni strofa inizia con “grazie alla vita che mi ha dato tanto”, cantato dal coro dei detenuti di Bollate. Ora, che ci sia un coro in carcere, dove dei detenuti si trovano per cantare, per me ha già dello straordinario, ma che addirittura canti un inno alla vita, è roba da far accapponare la pelle. Di cosa ringraziano? Della vita in carcere? Saranno anche reietti, ma non certo masochisti. Mi sorge il sospetto che non sia il luogo a dare voce a questa “eucarestia”, a questo rendimento di grazie, ma, piuttosto, “chi” lo abita. Si rende grazie a una presenza.
Questa certezza prende corpo con l’incalzare degli interventi spontanei, dei saluti più o meno a braccio, di coloro che l’inferno lo hanno vissuto e lo vivono, di coloro che ne sono stati conniventi o vittime. Cerco di afferrare il denominatore comune di tutti questi interventi, commoventi sì, ma c’è di più. Bisogna che capisca questo di più per non fermarmi alla pelle della vicenda, all’emozione, bella sì ma destinata a svanire con il calare del sipario, come la “sera del dì di festa” che porta a una inevitabile tristezza per le cose che più non sono.
Lo capisco quando il microfono passa al pluricondannato (11 ergastoli) che, con la voce strozzata dall’emozione, tenta di dire il suo semplice grazie a quest’uomo di Dio. Ecco cosa li unisce tutti: l’essere tutti figli. Tutti si rivolgono a Don Fabio come a un padre, anche chi non si è mai sentito figlio di nessuno. Semmai figlio di…. ma non certo figlio di un padre. E se non sei generato, non puoi generare. Come si fa a pensare di generare, un figlio, un’opera, un progetto con 11 condanne all’ergastolo? Il carcere diventa una tomba, una perenne attesa di morire.
Questi uomini hanno incontrato un padre, Don Fabio. Senza un padre, senza un’appartenenza da cui continuamente sei generato, la vita è solo l’attesa della fine, è un morire prima ancora di morire. E non solo in carcere. Il primo filo conduttore, dunque, è la parola gratitudine per qualcuno che c’è, qualcuno che riaccende quel desiderio di vivere che attende solo l’innesco. Perché è davvero inutile una risposta a una domanda che non si pone.
Là dentro, in carcere, come qui fuori, la questione bruciante è il desiderio. Don Fabio è entrato nella vita di queste donne e uomini, ponendo la domanda delle domande: “C’è qualcuno che desidera giorni felici?”. Ha lavorato su questa domanda ed è questo il suo merito, prima di tutto su di sé e poi ha sfidato chiunque a stare a questo livello.
Qui, in questo teatro, sabato ho assistito a questa epifania, al manifestarsi cioè di una storia di salvezza, di gente che ha usato la propria libertà (quanto è potente questa parola qui dentro) nel rispondere a questa sfida dentro la cattività di un carcere. Allora forse si può osare e dire l’impronunciabile, quasi fosse una bestemmia, parola: “gioia”.
L’innesco di questo inizio di un’ipotesi positiva sulla propria esistenza è stato questo sconosciuto pretino, amante della montagna, che nel nascondimento ha seminato la carezza del Nazareno in una terra arida e abbandonata. Allora tutta la vita assume un volto diverso: è un regalo. “…nonostante tutte le tenebre, tutto il dolore, tutte le cavolate abbiamo avuto mille regali… quel che sembrava sfortuna era un dono”.
Fanno proprie le parole di una canzone di Vinicio Capossela che qui sembra impossibile possano vibrare con tale forza: “È solo la crepa che libera la luce, solo con la crepa la grazia ci ricuce… e se tutto è stato un regalo, quello che conta è regalare”. Non solo la vita è un regalo, ma è data per essere donata.
Questa è la vera libertà, questo è il vero miracolo cui sabato pomeriggio abbiamo assistito: uomini che dicono finalmente “io” con stima e dignità, anche dopo aver commesso mille e terribili sbagli, e aver subito mille e terribili ingiustizie, perché hanno cominciato a guardarsi come li ha guardati Don Fabio, come cioè li guarda un padre che non può smettere di amare i propri figli.
Li ha guardati come lui si è sentito guardato quando ha detto di sì al “Padre nostro che sei nei cieli”, donandogli tutto sé in un sì che lo ha portato 22 anni fa dietro le sbarre perché ci voleva entrare Lui, Dio, a incontrare queste donne e uomini.
Mi viene in mente Madre Teresa di Calcutta, che diceva di aver avuto il compito da Gesù di portarLo negli angoli più bui della terra e del cuore degli uomini. E di piccole e piccoli Madre Teresa ce ne sono a bizzeffe, negli angoli bui di questo mondo, e uno di questi è Don Fabio, catapultato a Bollate per grazia di Dio.
Mi vengono in mente le parole di una grande amica che i primi tempi che entravo in carcere era solita dirmi che qui si incontra gente risorta ed è per questo che si viene: per vedere la vittoria sulla morte e sul male. Nessun altra ragione tiene nel tempo perché non siamo noi la risposta al male del mondo, né al desiderio di felicità nostro, figuriamoci di quello dei nostri amici fuori e dentro il carcere.
Mentre le scrivo, caro direttore, mi giunge la notizia della morte della mamma di una carissima amica e capisco che la sfida è già entrata tra le mura di casa mia: “C’è qualcuno che desidera giorni felici?”.
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