Caro direttore,
mi è capitato di recente di essere invitata a una festa di compleanno, in galera. La cosa non desterebbe alcun interesse, non fa notizia, se non a una cerchia ristretta di qualche amico, quando va bene. Perché dunque parlarne?
Sì, è una festa in carcere e allora? Allora c’è che non è immediata, non è automatica, non è scontata come lo può essere fuori. Intendo l’equazione compleanno=festa. E poi che c’è da festeggiare? Un altro anno in galera? Il carcere “costringe” a dare le ragioni di ogni cosa, anche di una banale festa di compleanno. E c’è chi questo lavoro non può o non vuole farlo, darsi cioè le ragioni e, esattamente come chi sta fuori, lentamente si lascia morire. Se non addirittura la fa finita e, soffocato nel gorgo della solitudine e della disperazione, compie l’estremo atto perché il dolore è irrespirabile, oltre che inspiegabile.
Nella cella al piano di sopra di quella della festa, pochi giorni prima si è consumato il dolore, me lo ricorda il festeggiato con una punta di tristezza, “qui è sempre più dura, amica mia”, mi confida. In galera accade tutto vicino, non solo per il sovraffollamento, ma per il comune destino che rende strani fratelli persone che non si sarebbero scelte in libertà. Eppure ti capita di sentire parole di struggimento per questo vicino di cella, una compassione che non è commento a un fatto di cronaca. Perché uno che non ce la fa in galera getta nello sconforto il vicino, toglie ossigeno alla speranza: che possa essere questo l’esito anche per me?
Qui, ed è strano tra gente che ci immaginiamo bestiale, emerge, al contrario, una simpatia per l’altro che non è sentimentalismo, ma un farsi coraggio reciprocamente, fare il tifo l’uno per l’altro, quasi come se all’improvviso ci si scoprisse fratelli, cioè bisognosi della stessa cosa. Di normalità. Me lo ripetono più e più volte da un anno a questa parte.
Ma cosa vuol dire normalità? Che cos’è normale? Una festa in galera, per esempio. Il che non è proprio come bere un bicchier d’acqua. C’è un considerevole sforzo operativo, di energie fisiche, economiche e di “domandine”. Le domandine sono richieste scritte dai detenuti e inviate al vaglio dell’amministrazione penitenziaria, per autorizzare la “qualunque”: autorizzazione per comprare cibo, per la “sala”, per cucinare, ma anche per un quaderno, un rossetto, un libro, insomma tutto ciò che non rientra nel “pacchetto base”.
Qui si impara a domandare tutto. Devi proprio volerlo perché sai cosa ti costa. Ti costa domandare, e di ‘sti tempi la cosa non è popolare. Alla faccia dell'”uomo che non deve chiedere mai” con cui ci hanno devastato i giovanili cuori e pensieri. Ed è qui la sorpresa su di sé: accorgersi di essere fatti di desiderio. Di cui la normalità è solo segno.
Dietro al desiderio di far festa con gli amici, di mangiare con le posate di metallo, di bere il caffè in una calda tazzina di ceramica, come un tempo si faceva senza nemmeno coglierne la straordinarietà, forse si cela quell’esigenza che ci si trova addosso, cucita sul cuore, quella cioè di amare ed essere amati, desiderio di bellezza e giustizia. Esigenze elementari, le definiva un grande maestro del nostro secolo, del mio in particolare, don Giussani.
La stessa esigenza di questo amico ferito, la stessa degli agenti penitenziari, che pure annoverano tra le proprie fila amici che non ce l’hanno fatta a sostenere la speranza, ai cui funerali mi è capitato di partecipare. La stessa esigenza mia e dei miei amici volontari. Si fa festa per un amico che ricorda il giorno della nascita a questa vita perché é la cosa più bella che il destino ci ha donato. Anche in galera.
Mi perdonino i miei amici galeotti se oso pronunciare queste due parole insieme, bellezza e galera, qui dentro, nell’inferno, ma è quello che vedo: donne e uomini che rinascono come semi messi sotto terra che iniziano a germogliare. È da una compagnia, a volte impensabile e misteriosa, che si riparte, come quella di una minuscola scritta rinvenuta sul muro di una galera straniera, da cui è ripartito un amico detenuto, seppellito a decine di metri sotto terra.
“Hanno tentato di sotterrarmi dimenticandosi che sono un seme”, recitava la scritta il cui sconosciuto autore doveva essere un precedente inquilino della stessa cella. E tutto improvvisamente si fa chiaro. Il problema non è non morire, ma vivere. Stare di fronte alla propria umanità con tutte le ferite ancora aperte e cominciare ad averne tenerezza per capirne la stoffa.
L’8 marzo, festa della donna, era un sabato, giorno in cui noi di Incontro e Presenza entriamo a Bollate. Faccio il mio ingresso al reparto femminile, quando mi viene incontro un’amica appena uscita dalla saletta adibita a centro estetico, sui generis. Ancora un tentativo di normalità, il farsi bella per sentirsi ancora donna, anche se non ti guarderà nessun uomo, non qui dentro.
Eppure lei ostinatamente attende che qualcuno lo faccia, e questo basta per continuare a sperare, con i capelli biondi raccolti e tenuti su dal giallo ramo di mimosa e, sulle labbra rosse, un sorriso che illumina ogni cosa intorno, sembra che le sbarre non esistano più, che le pareti siano alberi e tutto intorno profumo di libertà.
Ci sono momenti, anche in galera, in cui diventa evidente che siamo nati liberi, anzi liberati, e attendiamo che qualcuno in carne e ossa ci venga a tirare fuori di prigione e ci faccia respirare all’aria fresca.
È l’esperienza dei colloqui: quando un detenuto attende un colloquio o rientra da un colloquio, soprattutto coi figli, sembra camminare a un passo dal cielo, glielo vedi in faccia, ha una trasfigurazione, il volto gli si illumina. È contento, qualunque condanna senta pesare su di sé, qualunque misfatto abbia commesso, per un momento non gli pesa più, non sente il pungiglione del male che tormenta la carne e le notti galeotte. Sarà per questo che visitare i carcerati è tra le opere di misericordia?
Domenica scorsa, di passaggio straordinario a Bollate per salutare un amico, lo faccio chiamare dalla guardia di turno al reparto. Il suo cognome si diffonde nell’etere attraverso il suono gracchiante dell’interfono nella speranza che raggiunga in modo comprensibile il diretto interessato ai piani alti dove sono ubicate le celle. Non sempre si ottiene l’effetto desiderato. Nell’attesa, anche per i volontari il carcere è attesa, mi guardo intorno nel silenzio più totale, tipico della domenica in galera.
La domenica è per i detenuti il giorno più duro perché non c’è nulla da fare, nessuna attività, nessun colloquio, nessun volontario, insomma nessuna distrazione da se stessi, dalla propria condanna, ci sei solo tu davanti a te stesso, ai tuoi ricordi, ai tuoi fantasmi e si piange molto.
Mi ritrovo davanti alla porta della piccola cappella del secondo reparto, anch’essa una cella, da dove scorgo il volto del Crocifisso, tutto solo anche Lui, un Cristo tra le sbarre. Anche Lui, con la sua umanità ferita a suon di chiodi. Anche Lui sembra attendere, anche Lui, come tutti qui dentro, attende che qualcuno Gli faccia visita, si metta in colloquio con Lui, Lo strappi alla solitudine. Anche Lui con la sua “domandina”, anche Lui mendicante, sì ma del cuore dell’uomo, anzi proprio del mio.
Mi trova con questi pensieri il mio amico che mi saluta abbracciandomi forte, sorpreso della visita “fuori orario” e insieme ci incamminiamo, come i due di Emmaus, verso la stanza dei colloqui, ognuno con dentro la gioia per il dono di un incontro atteso e sperato.
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