Il Censis racconta un'Italia impaurita ed edonistica, capace di galleggiare. Ma sfugge al Rapporto la vera origine di questa resisitenza
Gli estensori del rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese per il 2025 hanno deciso di alzare il termometro delle criticità fino a parlare di una “regressione antropologica”, nella quale non sono più le scelte razionali dell’economia ad essere “il vero motore della storia”, bensì “antichi miti e nuove mitologie, paure ancestrali e tensioni messianiche” ad agire.
I sondaggi non hanno mancato di fornire argomenti ad una simile visione. La possibilità di scegliere tra affermazioni predefinite ha permesso a una minoranza non irrilevante di intervistati (il 38,8%) di condividere l’opinione secondo la quale “Siamo entrati in un’epoca in cui le divergenze tra paesi si risolvono con la guerra”, mentre arrivano al 29,7% quanti ritengono i sistemi autocratici “più adatti a un mondo in cui prevale il conflitto e non il dialogo”.
Accanto alla percezione di un mondo dominato da tensioni irriducibili si accompagnano le criticità di fatto, che il Censis non vuole affatto mitigare. Dal debito pubblico alla regressione demografica, alla perdita del potere d’acquisto degli stipendi e dei salari, il quadro d’insieme resta comunque inquietante.
La crescita del debito, implicando un ridimensionamento del welfare, se non vorrà imporre delle tasse esorbitanti che bloccherebbero il mercato dovrà ricorrere alla riduzione dei servizi alle famiglie e alle persone: manovra problematica e per molti versi impossibile, in quanto “senza welfare le società diventano incubatori di aggressività, e senza pace sociale le democrazie vacillano”.
La regressione demografica a sua volta, comportando la futura diminuzione delle donne in età fertile, è destinata a registrare un’accelerazione fisiologica che la renderà molto più temibile di quanto non possano esserlo i mutamenti di altri modelli di comportamento.
Infine la flessione nel valore medio delle retribuzioni annue e la perdita del potere d’acquisto dei salari, mettendo a rischio la tenuta del ceto medio nella conservazione del proprio status socio-economico, avvierebbero verosimilmente dei processi di recessione.
In un simile scenario il comportamento dei partiti che, al fine di recuperare consenso, anziché rassicurare i propri elettorati annunciano i futuri pericoli – dalla guerra al collasso climatico, dalla perdita di competitività europea alla deriva demografica – non fa che aumentare il distacco dalla politica.
Il Censis constata tuttavia come queste stesse emergenze che evidenzia e che i partiti non cessano di ripresentare, non sembrino affatto terrorizzare l’opinione pubblica. Tanto la minaccia dell’inverno demografico quanto quella della diminuzione del potere d’acquisto dei salari, del rischio di un conflitto bellico o del declino del welfare, sembrano scivolare nell’indifferenza di una maggioranza silenziosa in continua partenza per i week-end, pronta ad intasare città d’arte, borghi e stazioni sciistiche, più che a sigillare portafogli e preparare scorte per l’inverno.
Un simile disinteresse verso la crisi si iscrive secondo il Rapporto nella tenace attitudine degli italiani ad una “connaturata vocazione edonistica” che si condensa nell’iscrizione del piacere come stile di vita.

In realtà un tale mancato allarme nella percezione della crisi non è affatto un semplice voltarsi dall’altra parte. Come il Rapporto stesso dichiara, se il costo della spesa aumenta gli italiani consumano di meno. Se i costi per i servizi finanziari e assicurativi aumentano, questi vi fanno meno ricorso. Se l’offerta di lavoro non presenta condizioni soddisfacenti, i giovani varcano le frontiere per lavorare oltre i confini nazionali.
Manca nel Rapporto l’analisi dei segni positivi che comunque sono presenti nello scenario contemporaneo: dal giudizio favorevole delle agenzie di rating che abbassando lo spread fa crollare gli interessi sul debito pubblico, alle controtendenze presenti sul piano demografico grazie alla presenza degli immigrati regolari ed alle politiche di sostegno alle famiglie, al recupero di fiducia verso le personalità di rappresentanza di partito che, non implicando affatto una deriva carismatica, sono comunque preferite rispetto alle burocrazie anonime ed ai giochi tra correnti. Tutti questi aspetti sono consapevolmente messi in ombra.
Eppure per questa strada molti dei fenomeni presentati potrebbero essere riletti in maniera meno allarmistica: alla diminuzione nella lettura di libri e giornali (peraltro facilmente recuperabili nei dibattiti televisivi rilanciati su internet) può essere contrapposto l’aumento della frequenza ai concerti, la visita ai musei, alle mostre e ai siti archeologici. Il parlare meno di politica potrebbe essere ricondotto all’esasperazione dei toni più che alla mancanza di interessi.
Se il Rapporto enfatizza le fratture ed ignora le ricostruzioni, al suo opposto le Considerazioni generali che lo precedono sono decisamente più equilibrate. L’Italia che appare in quest’ultime è ancora quella storica presentata dal Censis negli anni Ottanta: è il Paese che sa stare a galla nelle crisi, che è capace di “rigenerazione interna”, per il quale “resistere, adattarsi, stare dentro la crisi è diventata un’attitudine italiana… si sfebbrano gli eccessi, si metabolizzano aggressività ed esclusione…rimodulando attese e interessi contingenti”.
Quest’Italia, secondo le Considerazioni, non può essere lasciata da sola. Si tratta quindi di fare appello alla responsabilità degli enti che risiedono nel sociale e quindi “nel sistema d’informazione, negli organi di rappresentanza, nei centri di ricerca e nelle università”, evitando “una sterile disputa quotidiana su qualsiasi argomento di attualità”. Non si può non essere d’accordo.
Resta la domanda sulle origini di questa capacità degli italiani di stare nel presente rimodulando “attese e interessi contingenti”, contrastando “sul piano economico e sociale il virus della crescita zero”. Arrivando – possiamo qui aggiungere – a concedere ai diversi governi la possibilità di limare costantemente protezioni e benefici, rendendo loro possibile una possibilità di manovra impensabile in altri contesti democratici.
Ci sono buone ragioni per ritenere che questa flessibilità radicata in uno stile di vita abbia radici profonde e che sia l’erede di quelle “fedi religiose” che ne hanno forgiato il Dna culturale ed hanno continuato ad operare, in modo sommerso, anche al di là della “mutazione antropologica” degli anni Settanta.
Non si vede perché l’eterno ritorno di un Dio incarnato, solennemente celebrato in una liturgia ancora oggi seguita dai due terzi degli italiani, la fede ostinata in un bene che, per vie oscure, segretamente trionfa, non abbia potuto contribuire a costituire, al di là di ogni crisi, un’incrollabile fiducia interiore che è molto più efficace di una “connaturata vocazione edonistica” e ne costituisce, verosimilmente, un fondamento più nobile.
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