Un giornalista in crisi, che tira a campare tra redazioni in bilico, case editrici e lavori da freelance, viene incaricato di scrivere un pezzo su Sfera Ebbasta, che ha fatto scalpore esibendosi al concerto del primo maggio con due rolex d’oro. Inizierà un viaggio alla scoperta dei cantanti e del pubblico trap. È tutta qui la trama de L’età della tigre di Ivan Carozzi. Scritto in prima persona, il libro usa il tema della musica dei giovanissimi per parlare del dramma esistenziale dell’autore, un quasi cinquantenne sottopagato e frustrato.
Il testo esce per il Saggiatore, casa editrice che pubblicò la crème degli intellettuali di fine anni ’50 e che oggi per la prima volta si cimenta su un tema così basso e volgare. Oggi il catalogo del Saggiatore è composto quasi solo dalla storica collana Cultura, che – insieme a questo volume – ospita l’ultimo saggio di Touraine così come Vivere la musica di Motta, un cantante indie pop italiano. Se la confusione non fosse già abbastanza, ormai tutte le copertine hanno una grafica pop simile.
L’età della tigre non è un saggio, ma ha una grossa parte di analisi. Nel libro, al racconto autobiografico e alle sue molte divagazioni, procede in parallelo un saggio di critica sociale e letteraria, che analizza il messaggio della trap e fa una disamina antropologica del suo pubblico.
La tesi di fondo è che la trap non sia altro che un medium. Questi artisti, Sfera in testa, impersonano lo “spettro” del capitalismo, che attraverso loro urla al pubblico “compra, consuma, competi, diventa ricco, più ricco”. L’autore addirittura azzarda un fil rouge tra i trapper odierni, la gioventù pettinata dei paninari anni ‘80 e Silvio Berlusconi, nella loro attitudine “capitalista e ganassa”. Sembra un po’ forzato mettere insieme l’etica dell’imprenditore con quella dello spacciatore, e l’autore scorda (o non sa) che l’autocelebrazione, piaccia o no, è una cifra stilistica del rap con 40 anni di storia.
Ma il rap nell’intero libro viene citato una sola volta, giusto per dire che gli artisti trap non hanno memoria del rap anni ‘90, non lo ascoltano e non lo studiano. Questo è vero, ma non vuol dire che gli odierni trapper siano tutt’altra cosa rispetto ai rapper. Ad esempio, sia Sfera che Ghali firmarono i primi contratti con Marracash e Guè Pequeno, tra i maggiori rapper degli ultimi 20 anni. L’autore sembra davvero poco informato, ma non sembra preoccuparsene. Finisce addirittura per chiedersi se si dice “il trap o la trap”. Conosce i trapper in voga solo per il loro successo di pubblico, e non per la musica che li ha fatti emergere, quella per cui gran parte di loro verranno ricordati.
Alcune critiche di Carozzi sono condivisibili. Il racconto del trapper, che parte da una vita di emarginazione, spaccio e espedienti per poi raggiungere il successo, è ormai diventato – come scrive – un cliché, non basta più. Ed è vero che il vocabolario dei testi trap è un formulario di pochi termini che si ripetono sempre uguali.
Il problema è la tesi di fondo, secondo cui i trapper sono “parlati dal capitale”. L’autore continua a riproporla, e piega tutto a questa visione: Ricchi per sempre, una canzone (piuttosto insulsa in verità) di Sfera Ebbasta, diventa “bozzetto di sgraziata poetica ipercapitalista”, gli youtuber che si occupano di streetwear e chiedono a ragazzini loro coetanei quanto costano i loro vestiti, sono fautori di un discorso “a rimorchio di quello del capitalista”. E la lista potrebbe continuare.
A margine sono citati Mark Fisher, Deleuze, Lacan: autori immancabili della sinistra alternativa di cui Carozzi si sente parte e a cui si rivolge. Lo si capisce perché oltre a una visione opprimente del capitalismo maturo, Carozzi condivide con questa fazione l’apprezzamento verso l’artista statunitense Lil Peep e la sua emo trap (una variante depressa della trap), che secondo lui è parresiasta (propria di “colui che ha il dovere di dire la verità”, ndr).
È questa la “trap buona” per un ambiente che disprezza la componente machista del rap e guarda di buon occhio ai testi depressivi dell’emo trap, che ben si sposano con le sue analisi della società. Una tesi ben riassunta in questo articolo di The Vision, che porta avanti più o meno la stessa visione di Carozzi: Side (ex Dark Polo Gang) è il corrispettivo italiano di Lil Peep e, a differenza dei trapper edonisti, prova a dire “la verità”.
Nel pieno della sua critica contro gli youtuber colpevoli di non aver risposto alle sue mail, Carozzi dichiara che “la letteratura e il libro restano infinitamente più vicini al cuore dell’uomo di un monologo davanti a una videocamera caricato in rete”. Insomma, libri buoni e trapper cattivi. Ma almeno questa sua affermazione ha il pregio di rivelare qual è il pubblico a cui si rivolge.
Infatti, come ben spiega la recensione pubblicata su Rumore, L’età della tigre non arriverà mai all’ascoltatore di trap: sono due pubblici troppo diversi. Ma Carozzi non vuole cercare di far comprendere al suo pubblico un mondo lontano, anzi il libro si crogiola nella sua incolmabile differenza. La trap diventa così un elemento alla moda preso dal contemporaneo e reso masticabile a un pubblico con consumi culturali completamente diversi, che non ha né il tempo né la voglia di capirla. Ma al massimo vuole riconoscervi un segno della decadenza dei tempi.