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Home » Politica » Referendum » REFERENDUM 2025 E IL CASO CITTADINANZA/ Cosa nasconde la “doppia sconfitta” della sinistra

  • Referendum
  • Politica

REFERENDUM 2025 E IL CASO CITTADINANZA/ Cosa nasconde la “doppia sconfitta” della sinistra

Stefano Bressani
Pubblicato 10 Giugno 2025
Migranti

Sbarco di migranti a Catania dalla Ong "Humanity 1" nel giugno 2024 (Ansa)

Più di un quinto dei votanti al referendum ha votato contro il dimezzamento dei tempi di concessione della cittadinanza. È il dato sostanziale del voto

Più di un quinto dei votanti al referendum si è espresso con la mano sinistra a favore dell’abolizione del Jobs Act, ma con la mano destra contro il dimezzamento dei tempi di concessione della cittadinanza agli immigrati (scheda gialla). Può darsi che le combinazioni di voto disgiunto fra le cinque schede siano state più numerose e complesse, ma l’indicazione grezza è questa e non sembra facilmente contestabile.


Sondaggi politici 2025/ Fiducia Meloni 46%: calo Pd in 1 mese, cresce M5s. Regionali: Cdx avanti nelle Marche


Ha fatto sgranare gli occhi a molti osservatori e aumentato l’imbarazzo dei promotori della consultazione, già colpiti e affondati dal mancato quorum. Tant’è: una referendum voluto dalla sinistra – la stessa che ieri sera ha lamentato una “crisi della democrazia” per nascondere una sconfitta squisitamente democratica – ha segnalato che una parte non trascurabile dell’elettorato di quella parte non condivide uno dei suoi mantra politici.


Sondaggi politici 2025/ Lega e AVS al top, Meloni allunga +7% sul Pd: sinistra non cresce, calano i centristi


Vi sono pochi dubbi sul fatto che il “quinto quesito” sia stato aggiunto come esca per l’affluenza, nel presupposto che ne sarebbe risultata accresciuta l’appetibilità ideologica di una consultazione pensata come spallata al governo di centrodestra.

Alla prova dei fatti si è rivelato un azzardo, forse neppure troppo sorprendente. Poco scusabile, certamente, per la Cgil, che dal 1945 ad oggi è stato il primo sindacato italiano e la proverbiale “cinghia di trasmissione” del mondo del lavoro verso i grandi partiti avvicendatisi nella rappresentanza della sinistra nazionale.

L’errore non appare nemmeno troppo difficile da leggere. La resistenza ultima e irriducibile al Jobs Act – narrato fin dal suo varo come strumento di “libertà di licenziamento” – continua a essere radicata in settori della società italiana legati a tutte le dimensioni del lavoro dipendente a basso reddito. La sostanza del mercato del lavoro può essere oggi addirittura peggiore rispetto al tempo della riforma: il rischio di licenziamento ha perso perfino peso relativo in un più generale processo di stagnazione e precarizzazione di occupazione e redditi.


Salvini: “Cgil usa i lavoratori per vendicarsi dei Referendum”/ “Landini blocca la tangenziale? È violenza”


E forse è questa una delle chiavi possibili della diserzione vasta, in fondo infastidita da una battaglia giudicata evidentemente di retroguardia. Non è abolendo il Jobs Act che si creano posti di lavoro e si aumentano le retribuzioni. Forse non sono più neppure efficaci leggi o contratti collettivi. Serve politica economica e questa oggi è certamente responsabilità del governo.

In questo schema interpretativo sembra d’altronde poter rientrare anche il fatto “sorprendente” che due milioni e mezzo di elettori hanno comunque deciso di timbrare il cartellino referendario contro il Jobs Act (votando sì all’abrogazione), ma hanno detto no a una corsia accelerata per l’ottenimento della cittadinanza italiana.

Vista attraverso la lente suggerita dal referendum – quella del lavoro e del suo mercato –, la cittadinanza non è “altro” rispetto ai diritti sindacali ed economici conquistati lungo decenni dai lavoratori e dai loro sindacati. Lo statuto dei lavoratori è ormai considerato – giustamente – un corpus di dignità costituzionale. Ma ad introdurlo nella democrazia italiana sono stati i padri e i nonni di molti lavoratori – o disoccupati – di oggi. Che spesso non hanno più neppure il lavoro/reddito difficile e poco tutelato di quel dopoguerra.

Così come nel 2016 gli elettori italiani dissero no – via referendum – a Matteo Renzi che voleva disporre con grande disinvoltura del bicameralismo parlamentare, dieci anni dopo una parte non piccola dell’elettorato di sinistra ha usato un referendum per dire ai suoi leader che la battaglia a favore dei “nuovi italiani” non può spingersi ideologicamente fino a mettere a rischio i “vecchi italiani”, anzitutto sui terreni cruciali del lavoro e del reddito.

Ci penseranno gli analisti di flussi elettorali a verificare poi un’altra ipotesi non manifestamente infondata: che i voti “4 sì + 1 no” “ siano riconducibili prevalentemente a elettori di M5s. Che non è mai stato un partito pro-migranti come invece Pd e Avs. Né può essere dimenticato che il partito fondato da Beppe Grillo ha stravinto il voto del 2018 con la promessa di un reddito di cittadinanza indirizzato nei fatti “prima agli italiani” (deciso “per contratto” da un governo M5s-Lega).

Se anche quest’indicazione fosse corretta, la segretaria del Pd Elly Schlein sta sbagliando anche nel post-referendum, quando afferma che la sinistra riparte da un campo largo di 14 milioni di voti. Ma è lo stesso errore commesso da Renzi – oggi bersaglio di referendum – quando all’indomani della sconfitta del 2016 disse che il 40% dell’elettorato era con lui. Non ci credeva neppure lui: si dimise e oggi non fa più nemmeno parte del Pd.

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Tags: Beppe GrilloPdElly SchleinMatteo RenziCgilM5s

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