Se qualcuno intende formarsi delle idee fondate sui referendum che ci attendono ai seggi domenica e lunedì prossimi non può fidarsi della propaganda degli agitprop del Sì da cui ricaverebbe solo slogan in gran parte menzogneri, ma neppure della contropropaganda delle anime belle che dichiarano di votare No perché credono nella partecipazione, senza rendersi conto che per contrapporsi agli slogan di Landini occorrerebbe tenere dei corsi di diritto del lavoro.
Prendiamo il caso del referendum bandiera sul Jobs Act. A un Landini che afferma che la vittoria del Sì ripristinerebbe la reintegra in tutti i casi di licenziamento illegittimo si dovrebbe replicare spiegando il disposto dell’articolo 18 come novellato dalla legge n.92 del 2012, la cui complicazione è nota, tanto che sarebbe comunque preferibile quanto resta del contratto a tutele crescenti anche nell’interesse dei lavoratori. Ci sentiamo di suggerire due approfondimenti: uno riguardante gli aspetti giuridici e uno quelli relativamente al contesto del mercato del lavoro in cui si tiene la consultazione referendaria.
Per quanto riguarda il primo approfondimento si possono consultare le sentenze della Corte Costituzionale che hanno ammesso i quesiti (quelle in materia di lavoro vanno dalla n.12 alla n.15 del 2025). Per agevolare l’approfondimento, riprendiamo quanto la Corte sottolinea circa il referendum sul Jobs Act.
Il quesito referendario – secondo la Corte – punta a rimuovere dall’ordinamento l’intero d.lgs. n. 23 del 2015, frutto di una discrezionale opzione di politica legislativa, senza che dalla vis abrogans possa scaturire una, preclusa, reviviscenza del quadro normativo preesistente. In sostanza – afferma la Corte – non è vero che in caso di vittoria del referendum si torni ai fasti dell’art.18; è vero, invece, che in questi dieci anni la giurisprudenza costituzionale aveva demolito in molti aspetti il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e che se dovesse passare il referendum vi sarebbero più svantaggi che maggiori tutele per i lavoratori.
La presa di distanza della Corte diventa ancor più evidente nel seguente brano della sentenza: “La circostanza che all’esito dell’approvazione del quesito abrogativo il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe in realtà in tutte le ipotesi di invalidità, perché in alcuni casi particolari si avrebbe, invece, un arretramento di tutela non assume una dimensione tale da inficiare la chiarezza, l’omogeneità e la stessa univocità del quesito medesimo.
Questo chiama, infatti, il corpo elettorale a una valutazione complessiva e generale, che può anche prescindere dalle specifiche e differenti disposizioni normative, senza perdere la propria matrice unitaria, che resta quella di esprimersi a favore o contro l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 nella sua articolata formulazione”.
In altre parole: i guai ve li siete andati a cercare da soli; noi non potevamo impedirvelo perché gli aspetti formali del referendum erano regolari; se un giorno dovreste accorgervi che vi hanno ingannato sulle aspettative non fatevela con noi che vi avevamo avvertiti.
Per quanto riguarda invece il secondo aspetto, l’invito è a leggere quanto ha scritto la Banca d’Italia nella Relazione per il 2024 resa nota lo scorso 30 maggio.
Qual è la lagna a cui ci hanno abituati gli ineffabili Landini, Schlein, Conte, Bonelli e Fratoianni? In Italia dilagano la povertà e il precariato, i salari sono da fame, l’occupazione aumenta ma diminuiscono le ore lavorate e aumentano i rapporti a part time volontario. Una vittoria dei Sì curerebbe queste piaghe. Chi legge attentamente i documenti del Palazzo di via Nazionale non può che domandarsi stupito: “Ohibò! Dov’è finito il Paese che viene descritto dalle opposizioni politiche e sindacali con meticolosa insistenza e secondo immutabili certezze che non consentono opinioni differenti? Dove l’occupazione cresce ma i salari sono troppo bassi, tanto da indurre i giovani ad immigrare (700mila negli ultimi dieci anni)?”.
Andando alla ricerca dei punti topici del dibattito politico nella Relazione si possono avere delle sorprese, riferite ad argomenti che si discostano dalla narrazione corrente la sola ritenuta politicamente corretta e rappresentata dai media e nei talk show. Per esempio, il gap salariale non è ancora stato recuperato in toto, ma la maggiore occupazione (che è comunque tuttora non comparabile con i tassi di altri Paesi specie per quanto riguarda il lavoro delle donne) ha contribuito al miglioramento dei redditi famigliari.
Nel 2024 in Italia il reddito disponibile delle famiglie ha continuato a espandersi, sebbene meno che nell’anno precedente per la forte decelerazione dei redditi da lavoro autonomo e da proprietà; si è mantenuto invece sostenuto l’andamento di quelli da lavoro dipendente, sospinto sia dalla dinamica dell’occupazione sia da quella delle retribuzioni; queste ultime tuttavia, in termini reali, rimangono inferiori ai livelli del 2021.
Le misure pubbliche di sostegno hanno continuato a essere rivolte principalmente alle famiglie a basso reddito e a quelle con figli, per le quali il rischio di povertà è maggiore. Grazie alla marcata riduzione dell’inflazione, il potere d’acquisto è tornato a crescere dopo la leggera contrazione del biennio precedente. È rimasto tuttavia moderato l’incremento della spesa per consumi, frenata sia dagli incentivi al risparmio derivanti dai livelli storicamente elevati dei tassi di interesse reali, sia dal deterioramento delle attese di disoccupazione.
Secondo un approfondimento specifico, queste ultime rifletterebbero solo in misura marginale i timori connessi con gli impatti dell’intelligenza artificiale sul mercato del lavoro. Il tasso di risparmio ha ripreso ad aumentare, attestandosi su valori più alti rispetto a quelli precedenti la pandemia.
È rimasta invece consistente la crescita dei redditi da lavoro dipendente, sospinta sia dalla dinamica dell’occupazione, sia da quella delle retribuzioni, nonostante in termini reali queste ultime restino ancora distanti dai livelli del 2021. Anche le prestazioni sociali hanno continuato a espandersi, grazie alla componente pensionistica. Dopo la contrazione nel 2022 e il ristagno nel 2023, il potere d’acquisto delle famiglie è tornato a salire (1,3%), beneficiando della forte riduzione dell’inflazione. Il reddito reale è cresciuto anche tenendo conto dell’erosione del valore delle attività finanziarie nette dovuta all’inflazione.
Come nel 2023, un forte contributo ai redditi delle famiglie è derivato dall’aumento dell’occupazione. Secondo elaborazioni della Banca d’Italia sui dati della Rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat relativi ai primi tre trimestri del 2024, fra i nuclei la cui persona di riferimento ha meno di 65 anni e nei quali non sono presenti pensionati, si è ulteriormente ridotta la quota delle famiglie senza occupati, soprattutto nel Mezzogiorno (al 23,6% al 24,5% del 2023; al 9,7% dal 10,0% nel Centro Nord),
ed è aumentata la percentuale di quelle con due o più adulti che lavorano. Nel 52,6% delle famiglie considerate è presente almeno una donna con un impiego, un valore superiore a quello del 2019 (51,3%), in linea con l’andamento del tasso di occupazione femminile.
Anche i tradizionali divari hanno evidenziato dei mutamenti. Dopo essere cresciuto meno che nel resto del Paese tra l’inizio degli anni duemila e la pandemia, il Pil è aumentato nel Mezzogiorno in misura maggiore rispetto al Centro Nord tra il 2019 e il 2023 (5,9% a fronte di 3,4%). Nel 2024, secondo l’indicatore trimestrale dell’economia regionale elaborato dalla Banca d’Italia, la dinamica sarebbe stata simile nelle due aree (0,9%, contro 0,7%). In termini pro capite, nel 2023 il prodotto del Mezzogiorno era poco meno del 57% di quello del Centro Nord, quasi 2 punti percentuali in più di quanto osservato nel periodo pre-pandemico.
Alla riduzione del divario ha contribuito in particolar modo l’espansione occupazionale, che ha più che compensato il peggiore andamento demografico nel meridione. Secondo elaborazioni Bankitalia, il lieve aumento della produttività del lavoro, che ha sostenuto il Pil pro capite in maniera analoga nelle due aree, sarebbe stato determinato dall’evoluzione positiva della produttività totale dei fattori; nel Sud e nelle Isole questa ha più che supplito alla diminuzione dell’intensità di capitale, che invece è rimasta invariata nel resto del Paese.
L’incremento dell’occupazione nel meridione tra il 2019 e il 2023 è riconducibile al comparto delle costruzioni, che ha beneficiato dei generosi incentivi per la riqualificazione edilizia, nonché ai servizi di istruzione e sanità, anche a seguito dell’allentamento dei vincoli di bilancio per l’assunzione di nuovo personale; gli effetti di queste politiche sono stati meno marcati al Centro Nord, sia in ragione dei tassi di crescita più moderati dei comparti interessati, sia perché questi ultimi pesano meno sull’occupazione dell’area. In tutto il Paese è stato molto ampio l’apporto del settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Nelle Considerazioni finali Fabio Panetta è stato altrettanto chiaro nel contrastare la politica della lagna. Negli ultimi cinque anni, tuttavia, nonostante le crisi pandemica ed energetica, – ha sottolineato il Governatore – il Paese ha mostrato segni di una ritrovata vitalità economica.
La crescita ha superato quella dell’area dell’euro. Il Pil è aumentato di circa il 6%, trainato da un incremento di quasi il 10% nel settore privato. Oltre che dalle costruzioni, un contributo significativo è venuto dai servizi, in espansione sia nei comparti tradizionali, sia in quelli avanzati. Gli occupati sono aumentati di un milione di unità, raggiungendo il massimo storico di oltre 24 milioni; il tasso di disoccupazione è sceso dal 10% al 6%.
Certo, nessuno si nasconde l’esistenza di problemi seri. In Italia, più che altrove in Europa, è urgente intervenire sul costo dell’energia, seguendo le direttrici già tracciate: ampliando il ricorso a fonti pulite, incentivando i contratti a lungo termine e rafforzando infrastrutture e reti di trasmissione. Servono investimenti adeguati e una netta semplificazione delle procedure autorizzative per i nuovi impianti. Ma il problema centrale rimane la produttività – nella manifattura come nel resto dell’economia. Gli incrementi finora conseguiti sono incoraggianti, ma non bastano a sostenere lo sviluppo del Paese.
Il basso livello dei salari riflette questa debolezza: dall’inizio del secolo, in linea con la stagnazione della produttività, le retribuzioni reali sono cresciute molto meno che negli altri principali Paesi europei. Fino alla pandemia, l’aumento era stato appena del 6%. Il successivo shock inflazionistico ha riportato i salari reali al di sotto di quelli del 2000, nonostante il recupero in atto dallo scorso anno.
Per garantire un aumento duraturo delle retribuzioni è indispensabile rilanciare la produttività e la crescita attraverso l’innovazione, l’accumulazione di capitale e un’azione pubblica incisiva. Certamente l’economia mondiale cammina sul tapis roulant dell’incertezza (i dazi) con un pericoloso abbandono delle regole verso relazioni fondate sui rapporti di forza. Questa – insieme alla guerre – è la grande incognita sul futuro.
Eppure in Italia, secondo il Governatore, “dopo la scossa delle crisi finanziaria globale e dei debiti sovrani, stiamo però vedendo segni di cambiamento: nella manifattura e nei servizi, nel settore finanziario, nel funzionamento delle amministrazioni pubbliche, nella capacità di ricerca. Sono segni di vitalità che non vanno dispersi. Non sono risultati compiuti – ha proseguito Panetta -, ma rappresentano un avanzamento reale. È una base concreta su cui costruire, impegnandosi nelle riforme, combattendo le rendite di posizione, offrendo prospettive ai giovani. Abbiamo la responsabilità e la possibilità di farlo”.
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