Flop referendum: la sinistra perde contatto con gli elettori. Tra astensionismo e identità, la crisi è politica.
Se non è una sconfitta, le somiglia molto. Che i referendum non avrebbero raggiunto il quorum si sapeva da parecchio e nessuno ci ha realmente creduto, e anzi la natura strumentale dei quesiti e dei temi posti appariva immediatamente come un tentativo di compattare su idee comuni i diversi attori che stanno animando in questo momento da sinistra l’opposizione.
Smontare con un voto popolare di massa il Jobs Act era un obiettivo di natura politica che significava rinnegare la stagione riformista e tornare a un’identità più coerente con la tradizione proto-comunista che Landini e la Schlein portano avanti.
In più, aveva il merito di occuparsi di temi a cui i 5 Stelle hanno sempre guardato con grande disagio ed offrire a Conte la possibilità di cancellare nelle urne l’odiato Renzi.
Il tema identitario della cittadinanza si prestava invece a un consenso trasversale, e forse meno ampio, ma che poteva portare alle urne un pezzo di liberali in più. L’effetto è che la somma di tutti i votanti per il Sì nei diversi referendum, anche quelli di maggior successo, raggiunge a stento la quota di elettori che nel 2022 si espressero a favore del Pd e del M5S.
All’epoca furono circa 12 milioni i votanti uniti ai 2 milioni che votarono per Calenda e Renzi; oggi il complesso dei votanti per il Sì nel referendum per la cittadinanza non raggiunge neppure i 9 milioni.
Tanti, forse troppi, sono rimasti a casa, e questo è il segnale peggiore che si potesse ricevere, tenuto conto che la base elettorale a cui oggi si guarda sarebbe quella degli operai e delle persone salariate a cui si offriva l’occasione di poter esprimere un voto contro gli odiati padroni.
In più, era una chiamata alle armi per tutti quelli che volevano affossare definitivamente il riformismo da sinistra, costruendo una nuova stagione d’identità politica forte da contrapporre a quella di Meloni.
L’operazione invece ha dimostrato con chiarezza che gran parte del centro politico del nostro Paese e molta parte della sinistra riformista sono spostati su posizioni meno intransigenti e non sentono proprie queste battaglie.
Nulla di male, per carità; la politica la si fa anche per manifestare una propria identità e un proprio pensiero, non solo per essere maggioranza e governare il Paese. E questo pare sia l’intento vero della Cgil di Landini e di una parte del Partito Democratico, che ritengono la loro presenza sullo scenario politico una forma di testimonianza valoriale, piuttosto che un impegno democratico a conquistare la maggioranza dei consensi.
In questa prospettiva vanno lette le dichiarazioni autoassolutorie della segretaria Schlein, che ritiene di aver raggiunto l’obiettivo di riportare al voto chi l’aveva già votata. Ed in questa trappola dello “stare bene solo tra noi”, tipica della sinistra massimalista, è caduto anche Conte, che, seppur non esposto in primissima linea, ha dato il suo consenso all’esperimento.
Solo che ora appare chiaro che questo consenso riuscirà a competere alle prossime elezioni politiche con la maggioranza di centrodestra solo se le cose resteranno così. Ovvero, tenendo assieme tutti e aggregando gran parte dei riformisti.
Diversamente, non c’è partita. I sogni, le ambizioni e le speranze di gran parte degli italiani sono forse rivolti altrove, e il tema dell’immigrazione, in particolare, non ha ancora trovato una sua soluzione tale da giustificare l’adesione alla proposta di ottenere la cittadinanza in cinque anni.
Stando così le cose, difficilmente si arriverà a una soluzione di reale compromesso che possa convincere l’elettorato moderato a recarsi alle urne e dare il consenso a questo cartello elettorale che appare, palesemente, privo di un aggancio concreto con un pezzo rilevante della società italiana.
Perciò, i prossimi mesi saranno essenziali per capire se il Pd lancerà per davvero la sfida per il governo insieme ai 5 Stelle, oppure se si accontenterà di dare una prova di esistenza in vita, come fu per le Europee. La grande difficoltà risiede soprattutto nell’ammettere di non aver trovato ancora la chiave interpretativa giusta per risolvere i problemi di rappresentanza politica che la sinistra massimalista ha tuttora.
Di certo ha compattato il fronte interno con questa chiamata alle armi, ma l’incapacità di aggregare larghi strati della popolazione è un limite fortissimo, e dal quale non riesce a divincolarsi per il potente abbraccio che Landini ha ormai sul ceto dirigente del Pd.
L’unica possibilità strategica è quella di cambiare radicalmente rotta e rimettersi al centro di uno schieramento ideale che tenga assieme le ali estreme a sinistra e a destra di uno schieramento che si vuole contrapporre a Meloni. Diversamente, lo sfarinamento elettorale di questo referendum diventerà una valanga di schede bianche o di astenuti che difficilmente si metteranno in coda ai seggi per promuovere la posizione politica di chi vorrebbe un ritorno alle vecchie dinamiche della sinistra storica del Novecento.
Le sfide che abbiamo di fronte come Paese sono enormemente più innovative ed estremamente più complesse di quelle proposte ad oggi nella contrapposizione tra datore di lavoro e lavoratori. L’immigrazione, purtroppo, non si risolve senza un percorso culturale di assorbimento efficace e di regole precise da imporre per poter finalmente offrire la cittadinanza in maniera semplificata a chi la merita.
Detto in breve, la scorciatoia di invocare un partito stile Pds che dirige e interpreta la critica marxista alla società, pensando che la lezione del grande saggio sia ancora attuale, appare inefficace e, soprattutto, superata nel lessico e nella pratica politica. Troppo pochi, quei voti per una rivoluzione democratica.