Non è tanto la spesa del 5% del PIL per la difesa a pesare, quanto il piano di riarmo europeo, le cui ragioni sono state spiegate nel Libro bianco redatto dalla Commissione europea. Ecco allora, spiega Massimo Pivetti, già ordinario di economia politica all’Università La Sapienza di Roma, che invece di indagare sulle vere cause della crisi dell’economia europea, Bruxelles ha scaricato sulle minacce alla sicurezza da parte di Russia e Cina la responsabilità della mancata crescita e del difficile mantenimento dei livelli occupazionali.
L’annunciato disimpegno americano rispetto all’Europa in relazione alla difesa ha fornito all’Europa la giustificazione per un progetto sul quale si punta per rilanciare la domanda interna ed evitare gli effetti negativi della crisi economica sul contesto sociale.
Gli USA, attraverso la NATO, ci chiedono di destinare il 5% del Pil alle spese militari rispetto al 2% odierno. L’Italia è in grado di sostenere uno sforzo del genere?
Non mi sembra francamente molto rilevante quanto gli USA, attraverso la NATO, ci chiedono di destinare alle spese militari in rapporto al PIL. Non abbiamo ancora ceduto la nostra sovranità nazionale in campo economico e sociale a Trump o a Rutte. Purtroppo, però, l’abbiamo invece in larga misura ceduta alle istituzioni europee. Qui, dunque, non si tratta tanto di subalternità agli USA dei Paesi europei.
Dove sta il punto allora?
La richiesta NATO arriva ora essenzialmente a supporto di una per noi ben più impegnativa richiesta, quella formulata il 19 marzo scorso dalla Commissione europea attraverso il suo “Libro bianco” sulla difesa del continente. Dato l’infimo livello culturale dell’attuale dirigenza europea, il progetto di riarmo in esso contenuto è formulato molto goffamente, tanto da apparire a tratti una vera e propria farneticazione.
Come si giustifica questa affermazione?
In esso non si esita, ad esempio, a sostenere che la crescita economica dell’UE e i suoi livelli occupazionali sono pregiudicati “dalle minacce alla sicurezza europea da parte di attori statali ostili” – nel testo si fa essenzialmente riferimento alla Russia e alla Cina – e dal conseguente “diffuso timore tra la popolazione di una rottura dell’ordine internazionale”. Naturalmente è ormai a tutti ben noto in Europa che i disastrosi risultati del progetto europeo in termini di produzione, livelli occupazionali e distribuzione del reddito non hanno niente a che vedere con le “minacce alla sicurezza europea da parte di attori statali ostili”.
Allora mettiamola in questi termini: che cosa contiene, politicamente parlando, il Libro bianco?
Vi si trova di fatto la ratio economica sulla base della quale si sta muovendo la Commissione europea. La bassa crescita delle maggiori nazioni europee nel corso degli ultimi decenni non ha fino ad ora arrecato alcun pregiudizio ai percettori di redditi da capitale e impresa, perché il contenimento di questi redditi associato alla bassa crescita è stato più che compensato dall’aumento della loro quota nei prodotti interni. Questo è stato dovuto a tre fattori.
Quali sono?
Il primo è la stagnazione dei salari reali a fronte del pur contenuto aumento della produttività del lavoro. Il secondo è la minore progressività del prelievo fiscale. Il terzo sono le estese privatizzazioni, ossia la trasformazione in capitale fonte di profitti di un’ampia gamma di attrezzature produttive precedentemente utilizzate a favore della collettività tramite la loro proprietà e gestione pubbliche.
E poi?
Il problema è che l’ulteriore aumento dei redditi da capitale e impresa nei prodotti interni sta diventando sempre più problematico, perché disoccupazione, precarietà, disuguaglianze distributive e condizioni generali di vita della massa della popolazione sono ormai a un livello suscettibile di mettere a rischio la tenuta del sistema. Inoltre, il programma protezionistico statunitense attualmente in corso di realizzazione – in altri termini, i dazi di Trump – si ripercuoterà negativamente sul già asfittico tasso di crescita delle economie europee, aggravando gli effetti sociali di un ulteriore aumento della quota dei loro prodotti interni destinata ai redditi da capitale e impresa.
A questo punto?
A questo punto l’Europa si dà come obiettivo quello di sostenere la crescita attraverso il sostegno della domanda interna. Questo, per decisione della Commissione, non deve avvenire tramite il rilancio delle spese sociali e investimenti pubblici finalizzati a una maggiore autosufficienza delle loro economie, ma attraverso, appunto, un massiccio programma di riarmo.
Ecco dunque la filosofia del piano di riarmo. Quali sono le sue osservazioni?
Ci si potrebbe chiedere perché non si è fatto ricorso anche prima a questa soluzione. Dopotutto, la sua efficacia era stata chiaramente dimostrata nel corso del primo trentennio post-bellico dall’esperienza degli USA, che erano riusciti egregiamente a sostenere crescita e livelli occupazionali appunto attraverso la produzione di armamenti e non attraverso l’espansione dello Stato sociale.
Non vi si è fatto ricorso perché l’Ue si riteneva coperta dall’ombrello militare americano e sarebbe stato difficile giustificare un programma di riarmo.
Sì, il disimpegno americano nei confronti dell’Europa, piuttosto inaspettatamente seguito alla vittoria di Trump e che nessuno è in grado di prevedere quanto duraturo, ha fornito alla dirigenza europea l’occasione del riarmo come strumento di rilancio della crescita in un contesto internazionale in cui l’Unione – e segnatamente la sua maggiore economia, quella tedesca, la più interessata alla corsa agli armamenti – molto difficilmente potrà d’ora in avanti continuare a contare su una crescita trainata dalle esportazioni nette.
Quindi?
Il riarmo diventa l’unico modo per cercare di rilanciare la domanda interna salvaguardando il più possibile le conquiste realizzate in tutta Europa contro il lavoro dipendente nel corso dell’ultimo quarantennio liberista attraverso il progressivo indebolimento del suo potere contrattuale.
(Paolo Rossetti)
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