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Home » Lavoro » Pensioni » RIFORMA PENSIONI/ La mossa (facile) per evitare nuovi esodati

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RIFORMA PENSIONI/ La mossa (facile) per evitare nuovi esodati

La Cgil ha evidenziato che dal 2027 potrebbero esserci circa 44.000 esodati a causa dell'aumento dei requisiti pensionistici

Giuliano Cazzola
Pubblicato 1 Aprile 2025
Ansa

Ansa

Dicono che per non farsi chiudere la porta in faccia occorre mettere un piede a fianco dello stipite. È quanto ha fatto la Cgil con un comunicato in cui viene ribadita la contrarietà già espressa in un recente passato nei confronti dell’adeguamento automatico dei requisiti pensionistici all’incremento dell’aspettativa di vita.


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Com’è noto il meccanismo era stato bloccato – nel caso della anzianità – a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e a un anno in meno per le donne nell’ambito dei provvedimenti assunti dal Governo Conte 1 nel dl n.4/2019 (nel quale vennero previste le misure sfasciste in materia di previdenza e lavoro varate dalla maggioranza giallo/verde).


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Il blocco era previsto fino a tutto il 2026, ma il Governo Meloni ne ha anticipato la cessazione alla fine del 2024, così da quest’anno la norma è ridiventata operativa, ma senza effetti pratici perché l’Istat non ha riscontrato per il 2025 e 2026 significativi incrementi dell’attesa di vita consentendo così l’invarianza dei requisiti, che, invece, a partire dal 2027 dovrebbero aumentare di tre mesi (che è comunque il limite massimo consentito a seguito delle verifiche biennali).

La Cgil nei mesi scorsi aveva denunciato che – attraverso la riattivazione del meccanismo – vi sarebbe stato un incremento dell’età pensionabile e che pertanto sarebbe stata necessaria una revisione. Il Governo non aveva detto di no. Adesso, nel comunicato citato, Ezio Cigna – il responsabile del settore per la Cgil – ha individuato un problema reale a favore della revisione.


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Si tratta di un tema destinato ad avere successo, come è avvenuto all’indomani dell’entrata in vigore della riforma pensioni della Fornero: la questione degli esodati, ovvero di quelle persone che avendo negoziato col proprio datore di lavoro un esodo anticipato a fronte di una extra liquidazione parametrata sui requisiti necessari a varcare l’agognata soglia della quiescenza, verrebbero a trovarsi per un certo periodo senza reddito e senza pensione, nel caso di spostamento in avanti dei requisiti.

Quando la discrepanza venne alla luce al momento dell’applicazione della riforma pensioni del 2011, tutti i talk show televisivi ci ossessionarono per mesi esibendo casi disperati di persone che nel frattempo – e in attesa di nove sanatorie costate 13 miliardi e riguardanti 200mila pensionati – hanno potuto usufruire del pensionamento sulla base delle regole pre-vigenti grazie all’estensione delle garanzie previste per gli esodati di casistiche molto diverse, tanto da consentire all’Ufficio parlamentare di bilancio la seguente considerazione in un Focus del 2016, redatto quindi dopo la settima salvaguardia:

“Se la sequenza degli interventi di salvaguardia dovesse continuare emergerebbe con sempre maggiore chiarezza il progressivo cambiamento di obiettivo di queste misure: non un esonero indirizzato in maniera specifica ai lavoratori che si trovano in difficoltà economica negli anni tra la cessazione dell’attività e la percezione della prima pensione a causa delle modifiche introdotte dalla riforma pensioni della  Fornero (cioè gli esodati in senso stretto), ma una soluzione per mettere al riparo platee più ampie e non necessariamente, o non tutte, danneggiate in maniera diretta dalla riforma pensioni, utilizzando le salvaguardie come surrogato di politiche passive del lavoro o di altri istituti di welfare oggi sottodimensionati o assenti”.

Cigna, però, segnala dei problemi reali: nel 2027 – stante l’attuale normativa ripristinata alla fine del blocco – vi sarebbero 44mila esodati e segnatamente (il conto è dettagliato): 19.200 lavoratori in isopensione e 4.000 con contratto di espansione si ritroverebbero con un vuoto di tre mesi senza assegno, senza contributi, senza tutele. A questi si aggiungerebbero altri 21.000 lavoratori usciti con i Fondi di solidarietà bilaterali, per i quali, seppur con impatti diversi, si configurerebbe comunque un possibile vuoto di copertura previdenziale.

Parliamo di persone che hanno lasciato il lavoro nel pieno rispetto delle regole, firmando accordi con aziende e fondi, basati su date certe di accesso alla pensione. Non ci permettiamo di essere arroganti fino ad affermare che il loro numero è limitato rispetto a quanti andranno in quiescenza con i nuovi requisiti, né che il “buco” sarà solo di tre mesi (perché è questo il limite massimo di legge, anche se l’incremento – previsto dall’Istat – dell’attesa di vita nel 2027 sarà di 4 o 5 mesi); crediamo però che proprio per questi motivi sia possibile trovare soluzioni ragionevoli, esonerando questi casi dal modesto innalzamento dei requisiti anagrafici e contributivi.

In fondo – a parte il caso degli esodati – la linea seguita in materia di pensioni dai Governi responsabili è sempre stata quella di farsi carico (con l’Ape, i lavori disagiati, l’esigenze di cure, i quarantunisti, ecc.) di reali situazioni di difficoltà occupazionali, famigliari o personali senza cadere nella trappola – approntata dai sindacati – del todos Caballeros ovvero di estendere i requisiti agevolati a tutti anche a chi potrebbe lavorare più a lungo senza particolari problemi.

Al di là delle considerazioni ragionevoli di Cigna, la Cgil non si rassegna e continua a dichiarare guerra alla norma dell’aggancio automatico. “Gli effetti dell’adeguamento alla speranza di vita – ha dichiarato la Segretaria confederale della Cgil Lara Ghiglione – pesano già oggi sulle nuove generazioni, costrette a posticipare sempre di più l’età della pensione e a fare i conti con assegni sempre più bassi, a causa della progressiva riduzione dei coefficienti di trasformazione. Un meccanismo che rischia di minare la fiducia dei giovani nel sistema pubblico e di accentuare disuguaglianze già profonde”.

A conferma di queste preoccupazioni vengono richiamati i dati dell’Osservatorio statistico Inps: il 53,5% delle pensioni vigenti al 1° gennaio 2025 ha un importo inferiore a 750 euro. Percentuale che sale al 64,1% tra le donne. Di queste il 43,1% (4,1 milioni di pensioni) beneficiano di integrazioni al reddito legate alla soglia minima. “È inaccettabile – sostiene la Segretaria confederale della Cgil – che più della metà delle pensioni sia sotto la soglia della dignità”.

È il solito gioco delle tre carte che una volta si faceva su di un tavolino all’uscita dalle stazioni. La Segretaria parla di pensioni anziché di pensionati, dimenticando che più di 23 milioni di assegni si ridistribuiscono su 16 milioni di pensionati. Quanto alle donne, sono più di 3 milioni quelle che percepiscono un trattamento di reversibilità che si aggiunge – se la percepisce – alla sua pensione. Inoltre, il fatto che del beneficio dell’integrazione al minimo beneficino 4 milioni di trattamenti, significa che negli altri casi la persona o il nucleo familiare godono di altri redditi e che pertanto non rientrano nelle casistiche per cui è ammessa l’integrazione al minimo.

Va poi ricordato che l’effetto dell’incremento automatico dei requisiti opererà in modo particolare per i trattamenti liquidati col sistema misto, in via di esaurimento nell’arco di alcuni anni. Quando si applicherà in generale il calcolo contributivo, diventeranno operative altre logiche: il calcolo della pensione sarà determinato dal montante contributivo e dai coefficienti di trasformazione ragguagliati all’età anagrafica al momento della data di decorrenza effettiva della quiescenza. Quindi, il lavorare più a lungo diventerà la principale condizione per l’adeguatezza del trattamento. È la logica del contributivo, bellezza!

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Tags: CgilEsodatiRiforma ForneroInpsGoverno Meloni

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