Il 20 gennaio avrà luogo uno degli incontri programmati tra Governo e sindacati per discutere di riforma pensioni. All’ordine del giorno sarà previsto uno dei temi a cui Cgil, Cisl e Uil tengono molto, almeno a parole: la c.d. pensione di garanzia. In verità, senza accorgersi di esporsi al ridicolo, i dirigenti sindacali aggiungono che questa pensione deve essere istituita per i giovani. E a noi pare singolare che delle organizzazioni sindacali, prima ancora di pensare a un lavoro per le giovani generazioni, si preoccupino di tutelarle quando saranno anziane. Ma che nel regime istaurato dalla riforma Dini-Treu manchi, quando sarà operativo solo il metodo contributivo, un forma di solidarietà infragenerazionale (da decenni assicurata nel retributivo e nel misto dall’integrazione al minimo) è un dato di fatto che la riforma Fornero ha risolto, come vedremo di seguito, solo in parte e in modo indiretto anzi, quasi rovesciato.
In sostanza, in regime di integrazione al minimo (finanziato dalla fiscalità generale in ragione di trasferimento in quota GIAS pari a più di 20 miliardi all’anno), chi matura i requisiti anagrafici e contributivi per aver diritto alla pensione percepisce – a fronte delle condizioni reddituali proprie o del nucleo di appartenenza – un’integrazione monetaria che porti il suo trattamento “a calcolo” (se inferiore), fino al livello del minimo legale, rivalutato ogni anno in base all’inflazione. Si tratta ora di circa 525 euro per 13 mensilità che diventano circa 650 quando si ha diritto alla maggiorazione sociale (l’ex milione del governo Berlusconi). Come abbiamo già ricordato, nel sistema contributivo (che oggi riguarda circa il 5% delle pensioni erogate annualmente) non è prevista l’integrazione al minimo, ma il pensionamento è consentito solo nel caso in cui – maturati i requisiti anagrafici e contributivi richiesti – il trattamento erogato sia pari a un multiplo (che varia a seconda della tipologia della pensione) dell’assegno sociale. In sostanza, gli interessati devono garantirsi, per poter andare in quiescenza, un minimo di adeguatezza del trattamento.
Si tenga conto, pertanto, che attualmente le pensioni liquidate interamente col sistema contributivo sono appena il 5%, mentre nella generalità dei casi e per anni saranno di gran lunga prevalenti i trattamenti in regime misto, a cui si continuerà ad applicare l’integrazione al minimo. Quello della pensione di garanzia non è quindi un problema urgente. Così non ha molto senso impegnare risorse per un futuro prossimo; ma quando lo impone la politica si finisce per occuparsi di questioni che non hanno, in questo momento, un senso apprezzabile.
Che cosa dunque potranno dire i ministri e i tecnici della presidenza alla trojka trinariciuta dei Segretari generali, che sono avvezzi a ragionamenti piuttosto grossolani in materie delicate come le pensioni? Magari sarebbe il caso di frugare negli archivi di palazzo Chigi per trovare dei precedenti: la previdenza è un tema talmente ossessionante che, in pratica, si è già studiato tutto, si sa già tutto. Il problema non è mai quello di trovare delle soluzioni a cui nessuno aveva pensato fino a quel momento, ma di indicare misure sostenibili nel tempo, perché non c’è nulla di più facile di andare a fare la spesa con la carta di credito di un altro, in questo caso delle nuove generazioni. Purtroppo i sindacati, oggi, non vedono l’altra faccia della medaglia dell’operazione pensione di garanzia che altro non è se non pensare a un meccanismo a favore dei giovani, ma anche a carico dei giovani. Perché saranno loro, divenuti anziani, a doversi procurare la loro pensione di garanzia, dopo aver pagato, per tutta la vita attiva, i trattamenti di chi ora va in quiescenza poco più che sessantenne e ci resta fino a quando inizieranno entreranno nel mercato del lavoro i bambini che nasceranno nello stesso momento in cui, al tavolo delle meraviglie, sarà trovato un sistema di garanzia, ora per allora.
Ci sarà pure in qualche computer il file a cui aveva lavorato il compianto Stefano Patriarca, quando, dopo l’accordo intervenuto tra i sindacati e il Governo Gentiloni nel novembre del 2016, si cominciò a ragionare anche di quella Fase 2 che doveva seguire il trasferimento nella Legge di bilancio dei provvedimenti concordati per la Fase 1 (sostanzialmente il Pacchetto Ape e dintorni). Al primo punto dell’agenda della fase 2 campeggiava il seguente testo: “In vista di un possibile intervento di riduzione strutturale del cuneo contributivo sul lavoro stabile al termine della fase attuale di esoneri temporanei, valutare l’introduzione di una pensione contributiva di garanzia, legata agli anni di contributi e all’età di uscita, al fine di garantire l’adeguatezza delle pensioni medio-basse”. Come si vede, una terminologia più corretta, simile a quella usata da Mario Draghi in conferenza stampa: “Un sistema che garantisca un certo livello di pensioni per i giovani e per coloro che hanno una attività precaria”.
Qual era la proposta che Patriarca illustrò in un apposito seminario con il seguente ordine del giorno: “Il cantiere della fase 2 tra pensione di garanzia e riforma del contributivo”? Veniva indicato un ventaglio di strumenti atti a inquadrare correttamente il problema: un sistema revisionato di contribuzione figurativa e un fondo di solidarietà per il sostegno delle basse contribuzioni (come solidarietà tra generazioni); il superamento degli ostacoli alla flessibilità contributiva; la gestione dell’innalzamento dell’età di pensionamento, come garanzia dell’adeguatezza e della stabilità; le diversificazioni necessarie per il lavoro di cura, le condizioni di salute, la gravosità del lavoro, l’assenza di reddito; un nuovo rapporto tra primo pilastro e previdenza complementare non solo e non tanto per integrare la pensione pubblica al momento dell’età di vecchiaia ma come strumento di gestione di risparmio collettivo per la gestione di redditi ponte (come l’Ape e la Rita).
E alla fine veniva delineato un meccanismo di pensione di garanzia definito trattamento minimo di garanzia. Una delle possibili ipotesi era quella di introdurre anche nel sistema contributivo l’integrazione a un minimo previdenziale come nel retributivo con la seguente struttura: un trattamento pari all’attuale minimo comprensivo della maggiorazione sociale (circa 650 euro mensili) percepibile all’età di vecchiaia con 20 anni di contributi e crescente per ogni anno di contribuzione successivo al 20° (ad esempio, 30 euro al mese per anno con un massimo di 1.000 euro). Questa ipotesi, secondo gli sherpa governativi, avrebbe determinato un tasso di sostituzione per una carriera piena (40 anni di contributi) pari al 65% della retribuzione media netta.
Restava aperto un problema: come raggiungere lunghi periodi di contribuzione per le nuove generazioni. La proposta si basava sul riconoscimento di un trattamento pensionistico obbligatorio articolato secondo due componenti: una pensione di base finanziata dalla fiscalità generale, di importo pari all’attuale assegno sociale e rivalutabile secondo le medesime disposizioni, e una pensione calcolata secondo il vigente sistema contributivo. Ciò allo scopo di assicurare, in particolare ai soggetti con minore capacità reddituale e contributiva, trattamenti pensionistici obbligatori complessivi e lordi non inferiori al 60% della retribuzione di riferimento. Infine, l’accesso alla pensione di base era condizionato al possesso dei seguenti requisiti, contributivi e anagrafici: almeno dieci anni di soggiorno legale, anche non continuativo, nel territorio nazionale; almeno dieci anni complessivi di contribuzione effettiva, anche non continuativa, a una o più gestioni di previdenza obbligatoria; la maturazione dei requisiti anagrafici già previsti dalla legge per l’accesso alla pensione contributiva.
In premessa il piano di Patriarca sottolineava che, per realizzare il nuovo disegno, vi erano alcune precondizioni così riassumibili (le ricordiamo perché ora sembrano dimenticate): contenimento della spesa nel breve e stabilizzazione finanziaria nel medio lungo; miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro; politiche di invecchiamento attivo. Se il sistema non fosse riuscito, infatti, a mantenere un equilibrio (o meglio un squilibrio sostenibile) nel presente, non ci sarebbe stata – si disse – speranza di un futuro. Anche adesso, benché la questione sfugga alla comprensione dei sindacati, le condizioni del mercato del lavoro e i trend demografici dovrebbero rappresentare il tapis roulant su cui camminano le prospettive del sistema pensionistico, sia per quanto riguarda la posizione dei singoli che quella della collettività dei lavoratori; le buone pratiche di invecchiamento attivo si accompagnano all’esigenza di allungare le vita lavorativa anche dal lato dell’offerta di lavoro.
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