Dati ISTAT: Italia più povera, soprattutto per chi fa figli. Famiglie a bassa intensità di lavoro: più difficile garantire una educazione adeguata
Il 23,1% della popolazione a rischio povertà, con una percentuale in leggero aumento rispetto al 2024. Il 9,2% delle persone che vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro. Il reddito annuale medio delle famiglie (37.511 euro), che nel 2023, in termini reali, si riduce dell’1,6%. Il 10,3% degli occupati a rischio di povertà lavorativa.
E ancora, l’ammontare di reddito percepito dalle famiglie più abbienti, cresciuto a 5,5 volte quello percepito dalle famiglie più povere.
Lo stato delle famiglie italiane, descritto dall’ISTAT, desta più di qualche preoccupazione. I problemi principali, osserva Alessandro Rosina, professore ordinario di demografia all’Università Cattolica di Milano, riguardano salari e conciliazione lavoro-famiglia, in un quadro in cui proprio le famiglie con i figli, soprattutto dai tre in su, si trovano in difficoltà.
Un quadro della situazione che produce condizioni sempre meno favorevoli per rilanciare la natalità e che ripropone la necessità di sostenere le famiglie nella crescita dei figli.
Secondo l’Istat, la percentuale delle persone a rischio povertà in Italia è salita dal 22,8% al 23,1 nel confronto fra il 2023 e il 2024. Che cosa ci dice, in termini di tenuta complessiva della nostra società?
È un ulteriore campanello d’allarme rispetto alle condizioni in cui si trovano le famiglie. Il dato Istat mette al centro un aspetto particolarmente preoccupante: la crescita delle famiglie con bassa intensità di lavoro, che espone a rischi di peggioramento progressivo della condizione familiare.
Significa che c’è carenza di lavoro, una condizione di sottooccupazione, oppure che c’è un unico percettore di reddito. È una parte di famiglie e popolazione che si stacca dal ceto medio e che scivola verso il basso.
Quali sono i motivi di questo peggioramento della situazione?
Lo stesso rapporto ISTAT sottolinea che c’è un indebolimento del potere d’acquisto, come è stato confermato anche da altre ricerche recentemente. Bassa intensità di lavoro, salari bassi e inflazione fanno in modo che le famiglie facciano fatica ad avere redditi adeguati e vedano erodere progressivamente il potere d’acquisto. Poi c’è il tema del costo della vita, del costo degli affitti, soprattutto per le giovani coppie e nelle grandi città. Infine, c’è il costo dei figli.
Il rischio povertà, infatti, aumenta se si hanno figli, soprattutto per chi ne ha almeno tre: in questo caso è un pericolo che corre il 34,8% dei nuclei, uno su tre. Quanto incide questo elemento sulla nostra situazione?
Quando si va oltre il secondo figlio si è molto svantaggiati. Questo elemento rappresenta un forte disincentivo, ancora più grave in un Paese come l’Italia, in cui la natalità è molto bassa. Conta molto anche la carenza di politiche di conciliazione, perché, se arriva un figlio e non c’è la possibilità di conciliare lavoro e famiglia, perché mancano i servizi per l’infanzia, i nidi, i congedi non solo di maternità ma anche di paternità, spesso la madre rinuncia a lavorare, quindi ad avere un secondo reddito. E questo espone ai rischi legati alla bassa intensità di lavoro.
Ci sono comunque tipi di contratto che potrebbero agevolare la conciliazione famiglia-lavoro: non sono sufficienti?
In Italia, il part time involontario è molto più alto rispetto agli altri Paesi europei. Nel resto del continente, due terzi del part time è scelto dai lavoratori in funzione delle loro esigenze di conciliazione tra lavoro e famiglia ed è reversibile, cioè una volta che queste esigenze non ci sono più, si può tornare tranquillamente a tempo pieno.
Da noi, invece, due volte su tre, il part time è di tipo involontario, in qualche modo imposto dall’azienda per tenere bassi i salari dei lavoratori. Un altro tema che va a peggiorare la condizione economica delle famiglie. Infine, sono in crescita le famiglie più fragili, monogenitore: quando c’è un unico genitore e un unico percettore di reddito, con figli minori a carico, il rischio di impoverirsi è particolarmente forte.
I dati dicono anche che aumenta il divario fra le famiglie più povere e quelle più ricche. I nuclei più abbienti sono sempre più abbienti. Perché questa forbice si allarga?
Aumentano le disuguaglianze perché a trovarsi in più difficoltà sono soprattutto le famiglie più fragili, nei territori più fragili. C’è una polarizzazione, per cui chi sta bene riesce a proteggersi meglio grazie a un lavoro solido e ben remunerato, mentre, appunto, le famiglie più deboli sono quelle che peggiorano maggiormente.
Oltre ad aumentare le disuguaglianze, si va ulteriormente a disincentivare la natalità: per proteggersi dal rischio di povertà, per queste famiglie il modo migliore è quello di rinunciare ad avere figli. E, per i giovani, rinunciare all’autonomia, rimanendo più a lungo a vivere con i genitori e allontanando di fatto il momento in cui avranno figli.
Che ripercussioni ha nel tempo questa situazione?
Aumenta la trasmissione di povertà intergenerazionale. Le famiglie in cui nascono i bambini sono in difficoltà: questo vuol dire povertà economica, educativa e quindi maggior fragilità delle nuove generazioni.
Si ripropone il tema del sostegno alle famiglie e alla natalità, ultimamente sparito dal dibattito politico. Si sta facendo ancora troppo poco?
Mancano misure che mettano oggettivamente le famiglie e i giovani nelle condizioni di poter realizzare i propri progetti di vita, per diventare autonomi dalla famiglia d’origine, entrare in maniera solida nel mondo del lavoro, avere una vita adeguata e quindi poter progettare una famiglia, avere figli e dare loro sicurezza economica ed educativa. I dati ci dicono che queste condizioni non sono andate a migliorare, anzi leggermente a peggiorare. Per questo è ancora più urgente agire in maniera solida sulle politiche di sostegno economico alle famiglie con figli e di conciliazione tra lavoro e famiglia.
Tocca solo alla politica intervenire?
Anche le aziende devono fare la loro parte, per esempio riguardo ai temi della conciliazione e del part time involontario. I congedi di paternità potrebbero essere favoriti non solo dalla legislazione nazionale ma anche dalle imprese, garantendo il loro utilizzo sul posto di lavoro. Su questo e sul potenziamento dei salari per i giovani, le aziende sono chiamate a una corresponsabilità.
(Paolo Rossetti)
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