Gaza che diventa una località turistica, la Riviera del Medio Oriente, e i palestinesi che se ne vanno in Egitto e Giordania.
Il piano partorito dall’imprevedibile mente di Donald Trump, ripetuto come un mantra nella serata dell’incontro del presidente USA con il premier israeliano Netanyahu, è salutato con entusiasmo dalla destra messianica israeliana di Ben Gvir e Bezalel Smotrich, ma in realtà, spiega Renzo Guolo, ordinario di sociologia della religione all’Università di Padova, esperto di islam e fondamentalismi, sconvolgerebbe tutta la regione.
Netanyahu si ritroverebbe attorniato da Paesi molto più agguerriti nei confronti di Israele, le cui opinioni pubbliche (ma anche le classi dirigenti) non potrebbero accettare la deportazione degli abitanti della Striscia.
Il rischio, insomma, sarebbe di creare una regione ancora più instabile di quella attuale, con Tel Aviv sempre più isolata e senza la possibilità di normalizzare i rapporti con i Paesi vicini, a cominciare dall’Arabia Saudita, che infatti ha già declinato l’invito ad accordarsi se non verrà istituito uno Stato palestinese.
Cosa significherebbe per il Medio Oriente applicare il piano di Trump di spostamento dei palestinesi in Egitto e Giordania e trasformazione di Gaza nella Riviera della regione?
Una proposta di questo tipo rovescia completamente tutte le prospettive e persino l’ipotesi di un accordo sui due Stati, perché verrebbe meno una parte importante del territorio che la comunità internazionale fino a qualche mese fa ha assegnato ai palestinesi.
Questa nuova ipotesi, che mescola insieme volontà di potenza e affari, tipica del nuovo corso trumpiano, non farebbe altro che privare i palestinesi della possibile patria. Presuppone lo sgombero forzato dei palestinesi, perché è chiaro che non ci sarà esodo volontario, e l’accoglimento da parte di Egitto, Giordania o di altri Paesi.
Si tratta di un’ipotesi praticabile?
Non credo che questi Paesi possano accogliere così tante persone, perché hanno un problema di equilibrio interno. Non mettono la mano sul fuoco per i palestinesi, visto che ormai la solidarietà infra-araba è abbandonata da decenni, e non possono prestarsi a un’operazione comunque difficilissima da digerire, perché crea un precedente non da poco.
L’Arabia Saudita ha fatto sapere a stretto giro di posta che senza uno Stato palestinese non sarebbe possibile la normalizzazione dei rapporti con Israele. Una dichiarazione pesante per Trump: potrebbe essere di intralcio ai suoi affari?
Trump mira agli Accordi di Abramo per tanti motivi strategici ed economici, ma l’Arabia Saudita è custode dei luoghi santi e rivendica questo ruolo.
Difficilmente potrebbe ancora avere la legittimità che serve anche ai nuovi regnanti: guardano al progetto 2030, vogliono la modernizzazione del Paese, ma hanno bisogno di non avere guai dal punto di vista della simbologia religiosa.
E quindi è evidente che i sauditi difficilmente potrebbero accettare, pena una delegittimazione molto forte, un piano come quello di Trump. Anche perché adesso non hanno solo un nemico nel campo sciita, ma anche un concorrente nel campo sunnita, cioè la Turchia, che vuole occupare determinati spazi.
Al di là della praticabilità, quindi, non è semplicissimo accettare una proposta di questo tipo.
Avrebbe un impatto su tutto l’ordine internazionale, perché è chiaro che se passa un precedente di questo tipo, questa volta tocca ai palestinesi, ma la prossima volta a chi? Non è una questione proprio di poco conto.
Mettiamo il caso che Giordania ed Egitto accettino. Materialmente come è possibile deportare due milioni di persone o poco meno in un altro Paese?
Devono essere sospinti manu militari dai marines e dalle truppe israeliane, sarebbe un impatto pazzesco. E comunque gli altri Paesi dovrebbero accettare i palestinesi. Il problema non è avere degli aiuti economici per farlo, è l’impatto che generano.
Basta pensare ai mutamenti che sono avvenuti in Libano, in Siria e all’interno della Giordania a fine 1970 con l’arrivo dei profughi palestinesi. Hanno una forte identità nazionale e tendono a comportarsi come una comunità coesa anche quando sono all’estero.
È evidente che sono un soggetto che nessuno vuole inglobare, perché temono fondamentalmente che si costituiscano come una comunità parallela all’interno dello Stato. D’altronde una nazione che culturalmente e politicamente cerca l’indipendenza, così fa. I palestinesi sono decisi a non subire la sorte dei curdi dopo il 1920, per capirci.
La Giordania, che già è praticamente per metà palestinese, se dovesse ospitare gli sfollati diventerebbe lo Stato palestinese?
Sì. Oltretutto non si farebbe altro che spostare il problema, perché se ci fosse un esodo verso la Giordania potrebbero mutare presto gli equilibri interni. Israele si troverebbe al confine il problema palestinese rafforzato da una dimensione statuale. Insomma, è un progetto che oltre a essere folle, è complicatissimo anche da realizzare.
Il governo israeliano, soprattutto nelle sue componenti più estremiste, plaude, tuttavia, all’iniziativa di Trump. Conferma i piani della destra nazionalista?
Di fronte a questa prospettiva, l’estrema destra messianica israeliana sarebbe solo felice, perché realizza l’obiettivo di sgomberare Gaza: gli alberghi e il turismo possono convivere tranquillamente col possesso di quella parte dell’Israele biblico che per loro è fondamentale.
Per quanto i palestinesi siano più che mai soli in questa fase, dopo l’indebolimento del sistema di alleanze seguito al conflitto del 7 Ottobre, è un po’ difficile digerire a livello della comunità internazionale un piano del genere.
Inoltre, ha bisogno di anni di tempo per essere realizzato e non è mica detto che fra quattro anni Trump ci sarà ancora. Per questo ci sarebbe una tendenza intanto a resistere, a non muoversi, a guadagnare tempo finché questo scenario muti in futuro.
Finito il mandato dell’attuale presidente USA, la situazione potrebbe essere la stessa ma anche molto diversa.
Tra l’altro, proprio in occasione della liberazione degli ostaggi, Hamas ha fatto vedere che non è per niente scomparsa, anzi, è ancora ben presente a Gaza. Si è tenuto conto di come potrebbe reagire?
Se ne parla pochissimo, purtroppo, anche nei media, ma l’offensiva che ha raso al suolo Gaza e ha toccato prevalentemente la popolazione civile, pur avendo inciso duramente sulla struttura militare di Hamas, non l’ha totalmente smantellata.
E soprattutto non ha sradicato tutta l’altra parte dell’organizzazione palestinese, che non è solo le brigate Ezzedin Al-Qassam, la colonna militare, ma è una confraternita religiosa, un welfare islamico, insomma qualcosa di più forte: ci sono due dimensioni tra le quali c’è osmosi.
Hamas, comunque, resiste anche dal punto di vista militare?
Gli stessi servizi americani calcolano che decine di migliaia di giovani si siano già arruolati ed è assolutamente credibile che lo abbiano fatto, visto come è stato praticato il conflitto, in un modo che ha radicalizzato le posizioni e alimenta tensioni ed estremismi di natura fondamentalista, come si è visto non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania.
Questa recrudescenza fondamentalista, di fronte alla deportazione di un popolo, potrebbe allargarsi a tutto il Medio Oriente?
La deportazione cambierebbe tutto il quadro. Verrebbero a galla molte situazioni che in questo momento sono in qualche modo contenute. È difficile per i regimi che non godono di consenso interno elevato far fronte a tensioni legate a un elemento di questo tipo: spaccherebbe anche le classi dirigenti.
Quindi, paradossalmente, Israele potrebbe ritrovarsi attorniata da Paesi vicini che sono più fondamentalisti?
Certo. La realizzazione degli obiettivi del governo Netanyahu, in larga parte, è dannosa per il contesto regionale e internazionale. La stessa Israele si ritroverebbe non in un contesto di pace, ma con Paesi ancora più agguerriti ai confini.
(Paolo Rossetti)
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