L'Ue blinda Zelensky, titolano i principali quotidiani. In realtà L'Ue sta insistendo in una serie di errori che hanno già avuto un prezzo altissimo
Manca una “visione unitaria” su Donbass e garanzie di sicurezza. Lo ha confermato ieri il presidente ucraino Zelensky, incontrando a Londra i leaders volenterosi Starmer, Merz e Macron.
Com’era prevedibile, il maggiore ostacolo dei negoziati sono i territori orientali, che Kiev non è disposta a cedere nonostante l’elevatissimo costo umano di una difesa che non appare destinata a modificare l’andamento del conflitto. Ciò nonostante i negoziati proseguono, mentre la nuova strategia di sicurezza USA trova il consenso di Mosca e isola l’Europa.
Aldo Ferrari è ordinario di lingua e letteratura armena e storia dell’Eurasia all’Università Ca’ Foscari di Venezia e direttore del programma di ricerca su Russia, Caucaso e Asia Centrale dell’ISPI di Milano. Secondo Ferrari l’Europa dovrebbe ridefinire rapidamente il proprio orientamento e sostenere il nuovo multilateralismo americano. Sarebbe l’ultima possibilità di salvare l’Ucraina dalla fine e di favorire una nuova svolta nella storia della Russia.
Dmitri Peskov ha dichiarato domenica che gli aggiustamenti della nuova strategia di sicurezza americana sono coerenti con la visione del Cremlino. In Europa il documento è stato accolto malissimo. Lei cosa pensa?
È chiaro che Trump ha una visione completamente diversa da quella del suo predecessore dei rapporti tra Stati Uniti, Europa e Russia. È una novità positiva ed è importante che sia stata messa nero su bianco. Non dobbiamo neppure esagerarne la portata.
Ci spieghi meglio.
Vi ritroviamo indicazioni di carattere generale che in parte già conoscevamo: un rapporto diverso con l’Europa, il fatto che gli USA pensano prevalentemente all’Indo-Pacifico anziché all’Atlantico. Ma vi è indubbiamente la critica all’espansione della NATO verso Est e la stabilizzazione dei rapporti con la Russia come obiettivo strategico.
Non è un caso che l’Unione Europea abbia preso male il documento.
L’Europa deve prendere atto e cambiare le sue strategie, posto che ne sia effettivamente capace.
Dopo l’incontro degli inviati speciali americani Witkoff e Kushner con Putin il Cremlino ha espressamente richiesto che venissero rivelati meno dettagli possibili. È una garanzia?
La Russia ha le idee chiare e le ha già esposte molte volte. Tuttavia l’attuale situazione è complicata anche dal fatto che le trattative stanno seguendo percorsi tortuosi, confusi, non il normale iter diplomatico. È un modo di procedere a mio giudizio inefficace. Resta il fatto che le delegazioni hanno una composizione mutevole e quindi un orientamento differente: Witkoff e Kushner – ma soprattutto il primo – sono più propensi ad accettare le proposte russe, mentre Rubio ha una posizione più tradizionalmente atlantista e molto meno aperta verso Mosca. Tutto questo per dire che ciò che viene tenuto al riparo dell’informazione, a mio avviso, è il grado di progressiva accettazione delle richieste e delle posizioni russe da parte degli Stati Uniti. Con i problemi che ne conseguono. Dunque è obiettivamente difficile chiudere il cerchio. Nello stesso tempo, c’è un dato chiaro.
Quale?
Esiste una sostanziale convergenza tra le posizioni e gli interessi di questa presidenza americana e gli interessi stabili della Russia. Questo sta progressivamente riducendo i margini dell’Ucraina, che resiste ancora solo grazie al sostegno occidentale. Se gli USA si sfilassero definitivamente, per Kiev sarebbe estremamente difficile proseguire la guerra e lo stesso Stato ucraino sarebbe a rischio. L’unica garanzia residua sarebbe quella europea; un’Europa divisa, debole e incapace di iniziativa comune.
“I negoziati sono giunti a un punto morto a causa della questione territoriale”, ha dichiarato ieri Zelensky. Sappiamo che tra le “cause profonde del conflitto”, per citare l’ormai nota espressione di Mosca, non ci sono soltanto le relazioni NATO-Russia, ma anche il Donbass. Le oblast contese da più dieci anni, Donetsk e Luhansk, sono più russi o più ucraini?
A chi appartiene storicamente il Donbass, a chi appartiene giuridicamente, a chi andrà alla fine sono domande diverse che riceveranno, purtroppo, risposte diverse. Il Donbass, importante per il suo sviluppo industriale e le sue ricchezze, è una regione prevalentemente russofona. I russi ne detengono ormai più di tre quarti e salvo imprevisti davvero eccezionali – che riguardino cioè il vertice del potere russo – alla fine si prenderanno i territori mancanti. È perfettamente comprensibile che gli ucraini non vogliano cedere territori che per il diritto internazionale appartengono a Kiev e sono ancora difesi dalle loro truppe. Ma sacrificare inutilmente soldati ucraini come si è fatto a Bakhmut, ad Avdiivka e a Pokrovsk quando non c’è speranza concreta di avere successo nella resistenza, secondo me è stata ed è tuttora una follia. È un sacrificio, per di più con il nostro sostegno, che appare umanamente e giuridicamente comprensibile, ma che sul piano militare e politico ritengo assurdo e alla lunga controproducente per la sopravvivenza del Paese.
Secondo lei il multipolarismo pragmatico inaugurato da Trump risponde in qualche modo alle istanze invocate da Putin nel lontano discorso alla Conferenza di Monaco del 2007, nel quale il presidente russo contestò il disegno statunitense di egemonia globale e sancì una netta discontinuità nella postura strategica russa? Fu un punto di non ritorno.
Direi che il multipolarismo di Trump, più che rispondere, “corrisponde” alle esigenze russe. I russi si sono opposti fin dagli anni 90, quando erano ancora deboli, alla convinzione e alla pretesa USA di poter essere egemoni a livello planetario. Con il discorso di Putin a Monaco questo avvenne in maniera più chiara. Russia e Cina ripetono da tempo che l’egemonia statunitense era sbagliata e impossibile, e i fatti lo stanno dimostrando. Trump, a differenza dei suoi predecessori, ne sta prendendo atto e si sta concentrando su obiettivi più limitati.
Anche quello di sganciare Mosca da Pechino?
Sì, perché appare consapevole che le grandi potenze dovranno coesistere. Nondimeno, regalare la Russia alla Cina è stata una conseguenza clamorosa dell’unipolarismo americano. Oggi avere la Russia così vicina alla Cina è un gravissimo problema per Washington, che Trump sta cercando di correggere. Lo fa a modo suo, in maniera un po’ confusa e discontinua, ma l’orientamento è certamente questo.
La vicinanza tra Russia e Cina è soltanto una conseguenza degli errori occidentali o è qualcosa di più profondo?
Mi occupo da lungo tempo di questo problema e la mia convinzione è che la Russia è un Paese geograficamente più asiatico che europeo, ma sul piano storico-culturale è senza dubbio un Paese europeo. L’avvicinamento di Mosca a Pechino è stato una svolta che gran parte della popolazione e anche delle élites russe non apprezza particolarmente.
Perché ci si è arrivati?
I russi hanno fatto questa scelta strategica principalmente perché vi sono stati costretti da ciò che hanno percepito – a torto o a ragione – come un’aggressione dell’Occidente, avvenuta attraverso l’espansione della NATO, frutto a sua volta di una totale incomprensione occidentale dell’esigenza russa di sicurezza strategica. A Mosca hanno scelto Pechino perché non sono riusciti ad individuare una strada alternativa alla situazione che si è creata negli ultimi decenni.
Si è molto parlato di eccezionalismo americano, sottolineando soprattutto come la sua versione “dem”, divenuta proiezione geopolitica, abbia creato disastri. Ma c’è anche un eccezionalismo russo, che nella sua ultima versione ha improntato il conservatorismo, l’ideologia dell’establishment al potere. Come sta cambiando la Russia sotto questo aspetto?
La Russia da sempre riflette su se stessa e cerca un suo posto nel mondo, che probabilmente non ha ancora trovato, e proprio per la compresenza nella sua identità della dimensione eurasiatica è sempre alla ricerca di un “giusto mezzo”. Sì, esiste – e i russi lo affermano – un eccezionalismo russo, la convinzione profonda che la Russia abbia un ruolo peculiare, “eccezionale”, nella storia mondiale. È un eccezionalismo che la relazione con la Cina sta riplasmando, ridimensionandolo, perché oggi la Russia è in posizione subordinata. Come ho detto e scritto molte volte, non credo sia un bene per la Russia, ma neppure per noi occidentali, in particolare noi europei, che la Russia rinunci alla sua vocazione di ponte eurasiatico tra Europa ed Estremo Oriente per diventare una sorta di succursale di Pechino. Nell’aver determinato questa svolta russa noi occidentali abbiamo gravi responsabilità.
Chi sono gli intellettuali o i suggeritori che in questa fase improntano o influiscono di più sulla leadership del Cremlino?
Si tratta degli economisti e dei politologi che si riuniscono nel Club Valdai, ai cui lavori partecipa spesso lo stesso Putin. L’influenza di uomini come Karaganov, Lukyanov e Bordacev è indiscussa nel dibattito russo. Ma Putin è persona che ascolta molti interlocutori, anche non necessariamente analisti, a cominciare dal suo cerchio più vicino, e poi decide ampiamente in solitudine. Una solitudine che si può permettere, visto il carattere assoluto del suo potere.
Qual è l’orientamento prevalente nel Valdai?
Fa riferimento alla ormai avvenuta creazione di un mondo multipolare al cui termine la Russia si pone vicino alla Cina e all’India, non necessariamente contro l’Occidente o contro gli Stati Uniti ma contro la loro egemonia. Il gruppo rivendica apertamente il ruolo conservatore della Russia nei valori e il crescente distacco dalle dottrine progressiste dell’Occidente, che in questa ottica conservatrice appaiono distruttive.
Karaganov ha invocato di frequente il ricorso alla bomba atomica tattica. Forse l’astuzia e perciò la prudenza di chi detiene il potere è superiore a quella degli specialisti.
Ritengo che si tratti soprattutto di affermazioni retoriche, l’estremizzazione di un approccio che nasce come difensivo, in relazione a ciò che in Russia viene percepito come una minaccia da parte dell’egemonismo occidentale. Noi ovviamente la vediamo in modo diverso. Proprio per questo occorre oggi più che mai uno sforzo per trovare un punto di incontro tra le posizioni occidentali e quelle russe.
Non sarebbe un cedimento?
No, sarebbe una manifestazione di realismo, doppiamente faticoso perché ci imporrebbe di prendere atto di una realtà cui non siamo più abituati. Eravamo abituati a dettare legge, non possiamo più farlo.
A quali condizioni oggi sarebbe possibile una pace in Ucraina?
Potremmo andare rapidamente verso una pace, vista l’attuale disponibilità statunitense a recepire il punto di vista russo, se anche gli europei accettassero il fatto che l’Ucraina dovrà cedere territori, che dovrà rassegnarsi a non far parte della NATO, e che dovrà accettare garanzie di sicurezza, ossia forze militari che la proteggano, non facenti parte di Paesi NATO.
Una pace che né a Kiev, né a Bruxelles, e forse neppure a Roma sarebbe considerata “giusta”.
L’alternativa è la prosecuzione sine die della guerra senza nessuna possibilità di vittorie da parte dell’Ucraina. A quel punto sarebbe in discussione anche la sua possibilità di continuare ad esistere come Stato.
(Federico Ferraù)
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