I media non hanno dato il dovuto rilievo, anche per mancanza di informazioni, alla telefonata tra Putin e Leone XIV, un fatto diplomatico e politico
Penso valga la pena di cercare di approfondire i significati, credo molteplici e non tutti immediatamente percepibili, della recente telefonata intercorsa tra Papa Leone XIV e Vladimir Putin. Sul Sussidiario ne ha già parlato don Federico Pichetto, che ha giustamente sottolineato il ruolo profondo che questa telefonata attribuisce alla Santa Sede. E non tanto perché può rappresentare “un segno di fiducia nella mediazione vaticana”, ma perché è “un riconoscimento, implicito, del fatto che c’è un unico attore sulla scena mondiale che può parlare a entrambi senza interessi diretti da difendere”.
Un ruolo, quindi, che va al di là di quello di un buon mediatore, nel quale viene riconosciuta alla Santa Sede una autorità più profonda. È da ricordare che la telefonata del presidente della Federazione Russa con il Papa è stata praticamente contemporanea a quella con Donald Trump, affiancando al riconoscimento di quello che è ancora considerato il maggior potere temporale il riconoscimento di una forte autorità che va al di là della mera geopolitica. Riconoscimento tanto più significativo in quanto non proveniente dal mondo cattolico.
Qui si presenta subito un elemento a mio parere non trascurabile: secondo quanto risulta, Putin non ha citato il Patriarca di Mosca, Kirill, menzionato invece dal Papa. Leone XIV ha ringraziato il Patriarca per gli auguri ricevuti alla sua elezione, sottolineando come “i comuni valori cristiani possano essere una luce che aiuti a cercare la pace, difendere la vita e cercare un’autentica libertà religiosa”. Un invito che appare provocatorio, se si rilegge quanto emerso un anno fa in occasione del XXV Concilio Mondiale del Popolo Russo, presieduto dal Patriarca.
Nel documento finale del Concilio si dichiarava che la missione spirituale della Russia “è quella di essere ‘Baluardo’ universale a difesa del mondo dal male” e, quindi, “difesa del mondo dall’assalto del globalismo e dalla vittoria dell’Occidente caduto nel satanismo”. Perciò, “La Russia deve tornare alla dottrina della triunità del popolo russo, che esiste da oltre tre secoli, secondo la quale il popolo russo è costituito da Grandi russi, Piccoli russi [ucraini] e Bielorussi, che sono rami (sub-etnie) di un unico popolo, e il concetto di russo abbraccia tutti gli slavi orientali, discendenti della Rus’ storica”. In questa visione, l’invasione russa dell’Ucraina acquisterebbe il valore di una “Guerra Santa” (così nel documento).
Non vi è dubbio che questa posizione, pur non condivisa da una parte credo non indifferente della Chiesa ortodossa russa, sia servita a Putin per “addobbare” l’invasione dell’Ucraina. Dopo il chiaro fallimento della cosiddetta “operazione speciale” e la trasformazione di una presunta guerra lampo in una guerra pluriennale, è pensabile che Putin abbia cambiato prospettiva e sia tornato ad un approccio alla questione più pragmatico.
Senza “l’addobbo”, per l’appunto, del nazionalismo confessionale, l’acquisizione alla Russia dei territori ucraini a maggioranza russa, Donbass e Crimea, potrebbe essere considerata una vittoria, sia pure con costi molto pesanti. Una soluzione, tra l’altro, che Putin potrebbe giustificare citando precedenti occidentali, come la separazione del Kosovo dalla Serbia a seguito dei bombardamenti NATO su Belgrado.
Questa soluzione sembrerebbe andare bene anche a Trump, contestata solo dai “volenterosi” europei, Regno Unito e Francia in testa, che dovrebbero essere convinti a spostare gli elevati costi degli aiuti bellici all’Ucraina alla necessaria sua ricostruzione. Compito che Mosca, e Washington, lasceranno volentieri a noi europei. Rimane sospeso un punto essenziale, l’appello del Papa alla Russia affinché “faccia un gesto che favorisca la pace”: la vera sfida per Vladimir Putin.
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