Il presidente Mattarella si è espresso con giudizi molto pesanti sul regime di Putin, paragonandolo a quello di Hitler. Così ha destato l’inevitabile, scontata, reazione dei seguaci del “nuovo zar”, difensori dell’identità sacra della Santa Russia, che a loro volta hanno accusato Mattarella addirittura di blasfemia.
Naturalmente il mondo politico italiano si è schierato, una volta tanto, compatto a difesa del presidente.
Caro presidente, personalmente mi posso associare anch’io, per quello che conta, al suo giudizio, ma mi permetta di dirle che questo, forse, non era il momento per queste esternazioni. In un periodo in cui, forse, si apre uno spiraglio per una trattativa seria di pace, che inevitabilmente coinvolgerà anche Putin e il suo regime, forse (sto ripetendo più volte questa parola come segno umiltà) sarebbe meglio non provocare quello che comunque è un avversario con cui è necessario mettersi d’accordo per il bene di molti.
In fondo lo dice anche il Vangelo, che è bene, finché è possibile, mettersi d’accordo “per strada” con il nemico prima di fare la guerra, soprattutto se il nemico sembra avere qualche arma in più. Nel nostro caso, l’atomica. Il Vangelo, poi, dice addirittura di amare i nemici; cioè non nega che ci siano nemici, ma ci dice che non necessariamente sono da odiare.
In questo senso negli ultimi giorni mi sono capitati due fatti, molto diversi tra loro, e comunque interessanti.
La settimana scorsa, a distanza di pochi minuti, sono entrate nel Santuario di San Giuseppe (in via Verdi a Milano, ndr) due coppie di donne, la prima di russe, la seconda di ucraine. Entrambe le coppie non sono entrate solo per ammirare il Santuario, ma anche per pregare. Come cerco di fare con tutti, le ho incontrate, approfittando della conoscenza delle loro lingue, cosa che le sorprende sempre favorevolmente e le ho invitate a pregare insieme per la pace. Senza dare alcun giudizio politico sulla situazione. Di fronte al loro fermo rifiuto di pregare insieme, ho ricordato che si trovavano in una chiesa cattolica “vselenskaya”, cioè, universale, e che se proprio non volevano pregare insieme erano pregate, cortesemente, di uscire. Cosa che hanno fatto, a testa bassa, forse perché in quel momento se ne stavano andando tristi come il giovane ricco del Vangelo, perché consapevoli di aver perso una buona occasione.
L’altro fatto è che ieri una violoncellista francese che avevo conosciuto da giovane in Kazakistan mi ha invitato alla Scala per assistere all’opera Onegin di Tchaikovsky. Al di là del piacere dell’incontro, dopo tanti anni, e della bellezza dello spettacolo, mi ha colpito la presenza in sala di un grande numero di spettatori russi, forse anche perché attirati dalla protagonista, Aida Garifullina, che interpretava il ruolo di Tatiana e che, come è noto, è una assoluta superstar del teatro lirico russo. L’opera è stata cantata tutta in russo, da cantanti che dall’accento si capiva bene che erano russi, ad eccezione del coro per cui la lingua risultava un po’ complicata. Ma si sa, quando nell’opera canta il coro le parole si perdono nella potenza del suono.
Dico la verità: all’inizio temevo qualche contestazione da parte ucraina, che in passato non era mancata. Invece tutto è andato liscio, con il rispetto di un’arte che non solo non ha confini, ma che è capace di arricchirci tutti con la ricchezza di ogni popolo.
Così, caro presidente, la prossima volta che daranno l’Onegin faccia un salto alla Scala, visto anche che quest’anno, per impegni inderogabili, non ha potuto presenziare all’apertura della stagione. Sono sicuro che anche lei sarà d’accordo con me che discriminare, come qualcuno ha fatto, certi esponenti della cultura russa, da Tchaikovsky a Dostoevskij, da Puskin a Tolstoj, da Bulgakov a Pasternak, fino ad arrivare a Grossman e Solzenicyn, non serve a chi crede nella causa della pace.
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