La riduzione del potere di acquisto dei salari italiani nel corso degli anni 2000 è un tema che riscontra una forte attenzione nel dibattito politico inversamente proporzionale alla quantità delle iniziative rivolte a contrastare le cause del fenomeno.
Nel contesto italiano il valore delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti viene stabilito, e adeguato, con i rinnovi dei contratti collettivi dei settori di appartenenza firmati dalle associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori. Quelli sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative trovano applicazione anche per le imprese e i lavoratori non aderenti, sulla base di numerosi pronunciamenti della Corte Costituzionale in attuazione dell’art. 36 della Costituzione (diritto al salario equo), che hanno influenzato anche l’evoluzione della normativa sui rapporti di lavoro e gli orientamenti della Magistratura.
Il combinato disposto della contrattazione collettiva e delle normative di sostegno ha consentito, secondo le indagini sviluppate dal Cnel e dall’Inps, di garantire una copertura dei contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle Federazioni di categoria aderenti alla Cgil, Cisl e Uil per oltre il 90% dei lavoratori dipendenti.
Tuttavia, questo risultato, tra i più elevati nel contesto dei Paesi sviluppati, non ha impedito la perdita del potere di acquisto dei salari di fatto, circa il -5% negli ultimi 30 anni, secondo alcune stime effettuate dell’Ocse sui Paesi citati. La gran parte dei quali hanno registrato una crescita robusta dei salari medi dei lavoratori dipendenti. Un andamento negativo che ha indotto, in particolare la Cgil, la Uil e i partiti della sinistra parlamentare, a proporre un provvedimento normativo per stabilire l’importo del salario minimo legale.
Un recente libro “La questione salariale”, scritto a quattro mani dall’economista dell’Ocse Andrea Garnero e da Roberto Mania, un giornalista di lungo corso esperto di relazioni industriali, fornisce una lucida analisi del fenomeno italiano.
Secondo gli autori, concorrono al risultato negativo un complesso di cause: la stagnazione della produttività in una parte rilevante del sistema produttivo e in particolare nei settori caratterizzati dalla presenza di micro e piccole imprese e da quote rilevanti di lavoro sommerso; l’elevata incidenza dei lavoratori con bassa qualificazione e dei rapporti di lavoro con orari annui ridotti che si concentrano in particolare nelle componenti dei giovani, delle donne e degli occupati del Mezzogiorno; la scarsa efficacia della contrattazione collettiva nazionale di settore nel contenere l’impatto dei fattori negativi.
Su quest’ultimo aspetto pesa la difficoltà di rinnovare i contratti alle scadenze prefissate che comporta un ritardo nell’adeguamento dei salari nominali rispetto all’andamento dei prezzi al consumo. Il divario con l’andamento dei prezzi al consumo è stato particolarmente elevato, circa l’8%, nel corso del 2022-23.
La complessità dei fattori che concorrono al risultato negativo sconsigliano la tentazione di intraprendere delle scorciatoie legislative per rimediare ad alcune criticità, ad esempio la bassa produttività e l’entità dei rapporti di lavoro con orario ridotto, originati dalle caratteristiche strutturali dell’economia. D’altro canto, la compressione del valore reale dei salari dura da troppo tempo per poter scaricare la responsabilità sui governanti di turno con il relativo onere di rimediare alle criticità con l’adozione di provvedimenti di legge e con l’utilizzo di nuove risorse pubbliche.
Preoccupa, invece, l’assenza di un di un confronto tra le parti sociali finalizzato a offrire risposte convincenti alla svalutazione dei salari e alla perdita di attrattività del mercato del lavoro che ne è derivata.
Il forte aumento della quota dei profili professionali richiesti dalle imprese che non trovano lavoratori disponibili, circa il 47% nelle indagini Excelsior Unioncamere/Ministero del Lavoro, è dovuto a una serie di fattori legati alla carenza di competenze adeguate, ma la bassa remunerazione delle prestazioni lavorative è una componente che concorre alla crescita del mismatch.
Negli ultimi 15 anni, anche per la coincidenza di due grandi crisi economiche, le rivendicazioni delle rappresentanze del mondo del lavoro sono state condizionate dal fabbisogno di interventi pubblici a sostegno delle imprese e dei redditi dei lavoratori e delle famiglie. Una quota rilevantissima di queste risorse, oltre 500 miliardi di euro di spesa pubblica aggiuntiva, è stata utilizzata per sgravare gli oneri contributivi dei nuovi assunti da parte delle imprese e per integrare le retribuzioni nette dei lavoratori (bonus Renzi e riduzione del cuneo fiscale), ovvero per favorire i pensionamenti anticipati come risposta alle criticità occupazionali.
La tutela dei bassi redditi, a partire dai salari, e le norme restrittive per l’utilizzo dei contratti a termine, hanno orientato un’intera stagione delle politiche economiche e sociali di natura redistributiva e l’adozione di numerosi provvedimenti normativi e finanziari che non hanno evitato l’aumento delle disuguaglianze dei trattamenti contrattuali tra i lavoratori sulla base dell’appartenenza ai singoli settori, molti dei quali registrano una cronica difficoltà a rinnovare i contratti alle scadenze previste, e l’incremento della quota degli occupati con redditi da lavoro inferiori a quello mediano.
Queste scelte hanno comportato anche la distrazione delle risorse potenzialmente destinabili a rafforzare l’espansione di settori, come la sanità, il lavoro di cura delle persone, l’istruzione e il ricambio generazionale nella Pubblica amministrazione, che negli altri Paesi europei hanno svolto un ruolo determinante per la crescita dell’occupazione, in particolare per aumentare la domanda di lavoro qualificato, delle donne e nei territori più svantaggiati.
Il processo di terziarizzazione della nostra economia risulta caratterizzato, in grande prevalenza, da settori a basso valore aggiunto che sottoutilizzano le risorse tecnologiche e umane disponibili, e da quote di prestazioni sommerse che svolgono un ruolo, tutt’altro che marginale, per mantenere i livelli di reddittività delle imprese.
L’occasione storica per invertire la tendenza negativa è rappresentata da tre condizioni strutturali: dalla domanda di lavoro delle imprese superiore all’offerta di lavoratori disponibili destinata ad aumentare, in assenza di rimedi adeguati per via della riduzione demografica delle persone in età di lavoro; l’ampia disponibilità delle nuove tecnologie digitali non utilizzate che possono favorire una crescita formidabile della produttività e il miglioramento delle condizioni salariali e di lavoro; l’esigenza di investire sulle competenze dei lavoratori per trasferire e utilizzate le tecnologie nelle organizzazioni del lavoro.
La combinazione virtuosa tra tecnologie e competenze dei lavoratori trova una puntuale conferma nelle pratiche della contrattazione aziendale e territoriale di secondo livello che attenzionano i fabbisogni di adeguamento delle organizzazioni del lavoro e l’attrattività dei mercati del lavoro locali, e dall’attività degli enti bilaterali promossi dalla contrattazione collettiva, in particolare dei fondi interprofessionali, che promuovono l’aggiornamento delle competenze dei lavoratori occupati.
Ma queste esperienze, soprattutto il fabbisogno di collegare la crescita dei salari agli incrementi della produttività e ai risultati aziendali, coinvolgono attualmente poco meno di un terzo dei lavoratori dipendenti privati e non hanno assunto un valore strategico che meriterebbero, per orientare la riforma del sistema di contrattazione.
Questa evoluzione comporterebbe tre conseguenze – il potenziamento della contrattazione decentrata; il rafforzamento dei modelli di compartecipazione dei lavoratori alle scelte delle imprese; la diffusione delle prestazioni del welfare integrativo – che non risultano particolarmente gradite a una parte delle organizzazioni sindacali e datoriali.
La politicizzazione del confronto sulle materie della regolamentazione dei rapporti di lavoro e della distribuzione del reddito prodotto, e la difficoltà di rinnovare i contratti di lavoro nei settori economicamente più deboli sono anche la conseguenza delle scelte operate nel passato e della rinuncia delle grandi rappresentanze delle imprese e dei lavoratori a riformare un sistema di contrattazione palesemente inadeguato.
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