Un rapporto dell’OSCE rivela i dati del Long Covid in Europa: in Italia ne soffre il 9,3% della popolazione indagata. Si tratta di uno dei livelli più alti
Non c’è dubbio che ormai la pandemia da Sars-CoV-2 si deve considerare terminata, almeno dal punto di vista epidemiologico. Certo, il monitoraggio della diffusione del virus prosegue ed ogni settimana veniamo regolarmente informati (non dai mezzi di comunicazione perché ormai non fa più notizia) sul numero, certamente episodico, di soggetti risultati positivi all’infezione ed anche sul piccolo numero di decessi sempre riconducibili al Sars-CoV-2.
Del resto, quando esco a fare la spesa sono ormai l’unico della mia città ad indossare la mascherina protettiva (anche se l’altro giorno in un viaggio aereo di ritorno da Cagliari eravamo ben tre persone con la FFP2), segno che anche il sentore delle singole persone ha deciso che la pandemia va relegata nel cassetto dei brutti ricordi con la speranza che da quel cassetto non esca più.
La possiamo considerare allora un episodio definitivamente concluso? Piacerebbe, ma purtroppo non è così, ed a ricordarcelo arriva un recente rapporto dell’OCSE, che ci obbliga a ragionare su quello che viene identificato con il termine di “long Covid”, cioè l’eredità sanitaria che il virus ci ha lasciato.
Cosa è il long Covid? Al di là di definizioni più specifiche o più generiche adottate nelle varie nazioni, il che pone sicuramente problemi di confrontabilità nei numeri che vengono proposti, si parla di long Covid quando un soggetto che è stato infettato dal virus manifesta a distanza di tempo uno o più di una specifica serie di segni e sintomi patologici (disordini dell’apparato muscoloscheletrico, dell’apparato respiratorio, disordini neurologici e mentali, …) ritenuti indicatori della presenza degli effetti a distanza del virus.
Nella pubblicazione The prevalence and impact of long Covid in the primary care population. Findings from the OECD PaRIS study del 2025, l’OCSE racconta i risultati di uno studio condotto nel 2023 dall’Agenzia in 16 nazioni OCSE, e tra queste anche l’Italia.
Lo studio ha preso in esame oltre 100mila pazienti di 45 anni e più che nei sei mesi precedenti lo studio hanno avuto un contatto con il proprio medico di medicina generale (in totale 1.816 MMG). Dei 103.000 pazienti analizzati circa 56.000 hanno riportato di essere stati infettati dal virus Sars-CoV-2 e circa 7.800 hanno manifestato sintomi persistenti per oltre tre mesi compatibili con una diagnosi di long Covid.
Secondo lo studio, quindi, il 7,2% della popolazione indagata ha mostrato di aver sofferto di long Covid, con un range che va dal 3,9% della Grecia al 10,8% della Norvegia, e con l’Italia che presenta uno dei valori più elevati (9,3%). Da notare che il 5,1% della popolazione continuava ad avere sintomi da long Covid al momento dell’indagine. Se guardiamo ai soli soggetti che avevano avuto l’infezione dal virus, lo sviluppo di sintomi attribuibili a long Covid è risultato minimo sempre in Grecia (8%) e massimo in Italia (22,9%).
La prevalenza di long Covid è risultata superiore nelle femmine (10%) rispetto ai maschi; superiore nella classe di età 45-54 anni, e nella popolazione con livello di istruzione più elevato; è risultata più elevata al crescere del numero di condizioni croniche presenti nei soggetti esaminati; ma il long Covid è risultato presente anche nel 6% di pazienti che non avevano alcuna patologia cronica in atto.
I pazienti con long Covid hanno mostrato una maggiore frequenza di problemi di salute fisica e mentale rispetto ai pazienti senza long Covid: tre quarti dei pazienti long Covid hanno giudicato buono il proprio stato di salute mentale, mentre questo giudizio è risultato più frequente (cioè nei quattro quinti) nei pazienti senza long Covid; parimenti, 6 pazienti su 10 con long Covid hanno giudicato buono il proprio stato di salute fisico, mentre per i pazienti senza long Covid questo giudizio è risultato superiore (7 su 10); un paziente ogni 5 con long Covid ha presentato sintomi severi di fatica mentre solo 1 su 10 ha segnalato questi sintomi tra i soggetti senza long Covid. Inoltre, i pazienti con long Covid hanno mostrato una prevalenza più elevata di disordini dell’apparato muscoloscheletrico e dell’apparato respiratorio, e disordini neurologici e mentali.
Anche la valutazione personale che i pazienti hanno dato del proprio sistema sanitario è risultata condizionata dalla presenza o meno di long Covid: il 58% dei pazienti con long Covid ha dichiarato di avere fiducia nel proprio sistema sanitario, mentre per i pazienti non long Covid lo stesso giudizio sale al 64%.
Lo studio non indica con sufficiente dettaglio come sia stato selezionato il campione, quanti hanno partecipato nelle diverse nazioni, quanti hanno rifiutato di rispondere, e così via, cioè le informazioni che usualmente permettono di valutare la qualità e la solidità dello studio condotto, il che sostanzialmente deve portare ad avere prudenza nella valutazione numerica dei risultati, in particolare per quei risultati dove le differenze tra gruppi non sono ampie.
Prudenza è richiamata anche dal fatto che la frequenza di pazienti con long Covid è risultata molto eterogenea nelle diverse nazioni, anche per via del fatto che da una parte la definizione di long Covid non è identica nei diversi Paesi, e dall’altra che i sistemi di sorveglianza nelle nazioni esaminate mostrano significative diversificazioni. Non ci si deve stupire però di queste considerazioni, perché non sono peculiari per il fenomeno long Covid e sono presenti tutte le volte che si effettuano confronti tra nazioni: per questo si suggerisce sempre di esercitare prudenza nella lettura di questi risultati.
Al di là della necessaria prudenza, lo studio dell’OCSE ci restituisce però una prima immagine piuttosto significativa della eredità sanitaria che il virus Sars-CoV-2 ci sta lasciando, eredità che dice che (parlando solo in termini di salute) oltre agli effetti sotto forma di decessi, di ricoveri in terapia intensiva o in altri reparti, di servizi e prestazioni sanitarie che siamo stati costretti a richiedere al servizio sanitario, di assenze dal lavoro per malattia, e così via, tutti attribuibili all’azione acuta del virus, occorre ora considerare anche tutto il seguito che il virus ha lasciato oltre la fase acuta e del quale se da una parte conosciamo ancora troppo poco ed abbiamo quindi bisogno di studiare ed approfondire, dall’altra cominciamo ad avere importanti segnali che la quota di popolazione interessata negativamente non è per niente poca: circa un italiano ogni dieci.
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