Per ridurre i tempi di attesa in sanità ognuno presenta la sua proposta. Ma occorre una visione complessiva del problema, a partire dal SSN
È noto che in Italia, parlando di calcio, siamo tutti allenatori della nazionale: ognuno ha il suo perfetto elenco dei giocatori da convocare e ognuno sa perfettamente come dovrebbero essere messi in campo per vincere qualsiasi partita.
Lo stesso succede, in sanità, sul tema dei tempi e delle liste di attesa: ognuno ha la sua indiscutibile ricetta per risolvere definitivamente il problema e si chiede come si fa a non vedere che la sua è la vera soluzione.
Purtroppo, così come non funziona per il calcio altrettanto non funziona per i tempi di attesa, e allora bisogna accettare di discuterne con calma perché il problema è oggettivamente complesso e non si presta a facili soluzioni o a (ritenute geniali) scorciatoie. Ne abbiamo già parlato in un precedente contributo su queste colonne ma vale la pena di riprendere l’argomento.
Tecnicamente parlando si tratta di un banale (si fa per dire) problema di squilibrio tra domanda e offerta di prestazioni, solo che questo disequilibrio non si mette a posto semplicemente, come si fa di solito, regolando l’apertura (o chiusura) di un rubinetto dell’acqua o del gas oppure muovendo la farfalla di una flebo, perché le cause dello squilibrio sono molte e complesse e su gran parte di esse l’intervento è difficile.
Cominciamo col rassicurare i faciloni che non basta aprire più punti di offerta, aumentare il personale, allargare gli orari di apertura degli ambulatori (sia durante la giornata che nel week-end), mettere a disposizione più macchine e strumenti, pagare meglio le prestazioni, far fare un po’ di esami ai MMG/PLS nei loro studi, regolare l’intramoenia, e così via: azioni certamente necessarie, ma che non sono altro che un palliativo perché non affrontano l’origine della malattia ed agiscono solo su uno dei due poli dello squilibrio (la rete di offerta: ed è altrettanto noto che in genere l’aumento dell’offerta porta ad un aumento anche della domanda).
E allora, se le proposte indicate sono solo un palliativo, quali sono i problemi che occorre affrontare? Senza la pretesa di essere esaustivi o di metterle in ordine di priorità provo ad elencare quelle che a parere di chi scrive possono essere considerate le più rilevanti.
Una idea di cura fondata sulla medicalizzazione, sulla esecuzione plurima di prestazioni, spesso ripetute in strutture diverse (anche a causa della frammentazione della rete di offerta), senza reale profitto ed utilità (cioè senza valore aggiunto) per il paziente, senza un’effettiva presa in carico globale della persona e dei suoi bisogni, con attività specialistiche che, soprattutto nei pazienti policronici e multipatologici, spesso non dialogano tra di loro limitandosi ciascuno a fare (bene) la propria singola e separata parte.
Una prescrizione di prestazioni che in molti casi trae la sua motivazione quasi esclusiva da atteggiamenti di medicina difensiva che portano ad aumentare impropriamente la domanda, sconfinando perfino nella inappropriatezza (prescrittiva ed erogativa).

Le difficoltà della medicina generale, cioè di quel livello organizzativo cui istituzionalmente compete la prescrizione delle prestazioni, e l’incapacità di fare fronte adeguatamente alla pressione esercitata dai pazienti che a loro si rivolgono sulla spinta dei colleghi (specialisti, in particolare) che non sono autorizzati alla prescrizione per il SSN, ma anche l’incerto avvio delle nuove caratteristiche della medicina territoriale introdotte con il Pnrr (case e ospedali di comunità) che hanno proprio l’obiettivo di fare da cuscinetto (non solo organizzativo ed amministrativo) tra l’emergere dei bisogni e l’erogazione delle attività più appropriate per rispondere a tali bisogni.
Una, ad oggi ancora, poco funzionale gestione dei processi di prenotazione delle prestazioni, con sistemi informatici diversi, presenza incompleta di agende, iscrizioni plurime dello stesso paziente per la stessa attività, mancate cancellazioni delle prestazioni non erogate e non più richieste, e così via, come dimostrano i dati disponibili presso Agenas relativamente alla Piattaforma Nazionale delle Liste di Attesa (PNLA).
Il doppio ruolo della rete di erogazione delle strutture private accreditate che agiscono contemporaneamente per conto del servizio sanitario nazionale (quindi con regole e tariffe assimilabili al pubblico) e per conto proprio (come privato tout court), dando luogo ad uno spesso sospettoso circolo che può spostare prestazioni da un contesto all’altro anche nell’ottica della fidelizzazione del paziente.
L’accreditamento delle strutture private (o la più semplice autorizzazione) con cui si apre la rete di offerta sulla scorta delle sole domande di accreditamento e non alla luce delle esigenze programmatorie di rispondere ai reali bisogni di un territorio, percorso che porta necessariamente alla sovrabbondanza di offerta di prestazioni che risultano economicamente remunerative per l’erogatore a dispetto di altre che per tante ragioni non sono altrettanto remunerative.
Un male orientato empowerment del cittadino, anche sulla scorta degli stimoli che vengono dalla pubblicità e dall’accesso indiscriminato ai moderni mezzi della comunicazione sociale di massa, che porta alla richiesta (ma spesso alla pretesa) di prestazioni come se la loro esecuzione fosse necessaria al mantenimento (o miglioramento) del proprio stato di salute ma che in realtà costituisce semplicemente la adesione al modello sociale dominante al momento.
Mi fermo qui solo perché ho consumato tutto lo spazio a disposizione, ma è facile ipotizzare che si può continuare a lungo con la lista. E tutto questo in un contesto che vede un numero sempre più grande di cittadini rinunciare alle cure o uscire dalla rete di offerta del SSN, altrimenti il problema delle liste e dei tempi di attesa diventerebbe ancora più grave e stringente.
Come si vede, sono state (seppur molto brevemente) accennate tante questioni che attengono sia alla domanda che all’offerta di prestazioni (perché un loro riequilibrio può avvenire solo agendo su entrambe), questioni che vanno ben al di là di alcuni aspetti organizzativi riferiti alla modulazione ed all’ampliamento della rete di offerta, seppur necessari come quelli ricordati in apertura, e che impongono riflessioni approfondite su elementi cruciali dell’attuale SSN. Non si tratta di fare qualche delibera regionale o di mettere un po’ di risorse in più dedicate alla materia, come appare dalle proposte di volta in volta avanzate sia a livello centrale che periferico, perché questi sono atteggiamenti che se da una parte rappresentano un segnale di buona volontà, dall’altra danno proprio il senso di come manchi una visione complessiva del problema. Se non ricominciamo a discutere delle basi del SSN, la convivenza con le lamentele sulla lunghezza dei tempi di attesa ci farà compagnia (senza alcun frutto) ancora per molto tempo.
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