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Home » Sanità, salute e benessere » SANITÀ/ La verità dietro le “strane” percentuali di italiani (dal 10 all’80%) che rinunciano alle cure

  • Sanità, salute e benessere

SANITÀ/ La verità dietro le “strane” percentuali di italiani (dal 10 all’80%) che rinunciano alle cure

IPSOS, ISTAT, EURISPES: non c’è accordo su quanti italiani rinunciano a curarsi per liste d’attesa o mancanza di soldi. Tempi di soluzione lunghi

Carlo Zocchetti
Pubblicato 1 Luglio 2025
Ambulanza, 118

Ambulanza (Foto: ANSA / Danilo Schiavella )

Quanti italiani rinunciano alle cure sanitarie? Basterebbe (si fa per dire) intervistare i quasi 60 milioni di cittadini del nostro Paese (chiedendo ai genitori di rispondere anche per i figli minorenni) e la risposta balzerebbe immediatamente agli occhi.

A parte l’ovvia difficoltà di fare una indagine di questo tipo, la risposta purtroppo dipenderà fortemente non solo dal numero dei rispondenti, ma soprattutto dalla domanda che si farà (o dalle domande), perché è ovvio che la domanda di per sé condiziona la risposta.


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Perché questa stramba introduzione per rispondere ad una domanda seria che in questo periodo ha trovato molta attenzione sui media, e di cui su queste colonne abbiamo diffusamente parlato? Il seguito spero che lo farà comprendere, però dobbiamo andare con ordine cominciando a mettere in fila i numeri.

Secondo IPSOS, che in occasione della giornata mondiale del Medico di Famiglia (19 maggio) ha pubblicato i primi risultati di una indagine condotta per conto della FIMMG (Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale), l’ “80% degli italiani ha rinunciato alle cure del Servizio Sanitario Nazionale più di una volta”, cioè 8 italiani su 10.


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Secondo il Rapporto annuale 2025. La situazione del Paese di ISTAT invece è il 9,9% della popolazione, cioè quasi un italiano su 10 s rinunciare alle cure sanitarie.

Infine, secondo il 37esimo Rapporto Italia del 2025 di Eurispes, sarebbe quasi un terzo (3 persone su 10) il numero degli italiani che rinuncerebbe alle cure. Ci saranno in giro senza dubbio anche altre stime, ma le tre che ho considerato sono le più recenti e sono più che sufficienti per i ragionamenti che seguono.

È possibile che ci siano queste differenze nei numeri o c’è qualcosa che non quadra? Chi ha ragione (o, se preferite: chi ha torto)? Da vecchio statistico mi verrebbe da dire: tutti e nessuno. Tutti, nel senso che, almeno a priori, do per scontato che ognuno ci racconti (naturalmente ciascuno a modo suo) i numeri che esattamente ha raccolto, senza imbrogli o secondi fini; e nessuno, nel senso che le differenze numeriche sono così straordinarie da far pensare che evidentemente si stia rispondendo a domande su argomenti diversi. E allora approfondiamo.


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Ogni indagine campionaria (e le tre sono tali, visto che risulta poco praticabile intervistare tutti gli italiani) nasce per rispondere ad alcune esigenze informative, a partire da una popolazione-obiettivo all’interno della quale viene poi scelto il campione da indagare.

Al di là del diverso numero di ognuno dei campioni delle tre indagini (e di almeno una questo numero è sconosciuto), si è partiti dalla stessa popolazione-obiettivo? Oppure una era, ad esempio, più vecchia (o più giovane); un’altra era particolare (esempio: i pazienti che si sono rivolti al proprio MMG nel mese precedente l’indagine); un’altra ancora era costituita dagli utenti che usano la WhatsApp o che hanno accettato di rispondere ad una telefonata che hanno ricevuto; e così via per i tantissimi modi con cui può essere selezionata una popolazione-obiettivo e può essere condotta una raccolta di informazioni (ed adesso, purtroppo, anche in campo scientifico va molto di moda, per via della sua facilità pratica, il ricorso a campioni raccolti tramite internet, campioni che sono tipicamente rappresentativi di popolazioni selezionate e non generali).

Ma non bastano la popolazione target e la sua numerosità a giustificare le differenze osservate: occorre chiedersi se è stata rivolta la stessa domanda. A che rinuncia si è fatto riferimento nella domanda (ad una visita specialistica, ad un ricovero, ad una prestazione ambulatoriale, ad un appuntamento con il proprio MMG, a curarsi, …)? In che periodo (ultima settimana, o mese, o anno, o tutta la vita, …)? E la domanda si complica ulteriormente se alla richiesta della rinuncia si aggiunge anche il motivo della rinuncia (tempi di attesa, distanza dall’erogatore, difficoltà economiche, …).

E così si può continuare ad elencare considerazioni e motivi per cui indagini diverse apparentemente riferite allo stesso argomento possono fornire risposte anche largamente discordanti. Il punto critico, purtroppo per il lettore, è che nella comunicazione che viene fatta molto raramente vengono messi a disposizione le informazioni di dettaglio per comprendere le caratteristiche metodologiche dell’indagine e ci si limita a riportare i risultati, e talvolta anche risalendo alle fonti originarie (il cui esame richiede competenze che non possono essere pretese da tutti i lettori) l’informazione necessaria non si trova (come, ad esempio, per una delle tre indagini citate).

Non deve allora stupire che i risultati possano risultare “largamente” discordanti: ma “largamente” quanto? Di sicuro non tanto quanto i risultati delle tre indagini citate, secondo le quali gli italiani che rinunciano alle cure sarebbero in un caso circa il 10%, in un altro il 30%, ed in un altro ancora il 80%.

Si tratta di valori tutti fasulli? Non ho motivi per sostenere questa tesi. Si tratta di diffidare a priori di questo tipo di indagini campionarie? Contraddirei la professione che ho sempre svolto. Si tratta di dare fiducia a chi sta nel mezzo, evitando quindi gli estremi e le esagerazioni, seguendo l’andante che “in medio stat virtus”?

È vero che il detto invita a cercare l’equilibrio e l’armonia evitando gli estremi, ma perché si dovrebbe applicare in questo caso? Si deve preferire qualche operatore (ISTAT? IPSOS? Eurispes?): potrei avere le mie preferenze, ma ce ne sono le ragioni in questo caso? Spesso ci si rifà alla letteratura, ma sull’argomento della rinuncia alle cure le indagini sono tutte del tipo di quelle qui riportate e quindi il problema della scelta si ripropone tale e quale. È certamente un bel rebus, ma rispetto al classico gioco enigmistico manca qualsiasi traccia che indirizzi verso la soluzione.

E allora che fare? Non ho una proposta numerica e neppure una motivata (o indiscutibile) preferenza, e riconosco che le ragioni di una mia eventuale scelta (che c’è, ovviamente, anche se qui non è esplicitata) potrebbero essere ragionevolmente contrastate dalle ragioni di altre preferenze.

Certo, stupisce l’enorme distanza tra le tre stime e qualche perplessità (forse più d’una) inevitabilmente sorge, ma non riuscendo a risolvere il rebus, per “non buttare via il bambino insieme all’acqua sporca”, comincerei almeno col prendere atto che anche la stima più moderata propone per la rinuncia alle cure un valore che (secondo il mio sindacabile giudizio) appare piuttosto elevato (10%) e che sicuramente da parte del SSN non manda un buon segnale al cittadino.

Ergo, anche solo dando credito alla ipotesi più conservativa e favorevole, risulta evidente la necessità di intervenire il più presto possibile a contrastare i tanti motivi della rinuncia alle cure (tempi di attesa, ragioni economiche, questioni geografiche e territoriali, rete di offerta, disponibilità tecnologiche, informatizzazione, …), ma i tempi che questi interventi (qualunque siano) richiedono per la loro implementazione sono, purtroppo, la garanzia che con la rinuncia alle cure da parte di una buona fetta di italiani dovremo convivere ancora a lungo, anche se già da domani cominciassimo a mettere in pista qualche iniziativa.

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