Le preoccupazioni della Chiesa davanti alla legge sul Fine Vita: “buon inizio ma serve cultura della cura per il diritto ad non essere lasciati soli”
LA CHIESA NON VUOLE “SCONTI” MA SI APPELLA ALLA LOGICA UMANA: “CURARE LA VITÀ, NON FAVORIRE LA MORTE”
Sebbene vi sia ancora molta distanza tra maggioranza e opposizioni, entro metà luglio dovrebbe far capolino in Senato il primo disegno di legge sul Fine Vita, frutto del testo preparato dal Centrodestra dopo i rilievi e le sentenze della Corte Costituzionale dal 2019 fino ad oggi. Tra i principali interlocutori nelle scorse settimane con il Governo Meloni vi è certamente la CEI, con il vicepresidente dei vescovi italiani mons. Francesco Savino che in una intervista a “La Stampa” racconta tutta l’attesa (non senza qualche preoccupazione) sul prossimo importante appuntamento legislativo.
Davanti ad un Centrosinistra che grida allo scandalo per un semplice passaggio della bozza che recita la necessità di un principio di “tutela della vita dal concepimento fino alla morte”, con un clima politico già “caldissimo” per la delicatezza della tematica, il timore della Conferenza Episcopale Italiana è che vi possa essere un avvallo ad una cultura secolarista che mira all’eutanasia legalizzata di Stato, il vero obiettivo non nascosto dall’Associazione Coscioni di Marco Cappato.

«Occorre custodire e proteggere la vita, non tanto regolare la morte»: così mons. Savino, arcivescovo di Cassano allo Jonio ma anche pioniere in Italia da anni per l’assistenza ai malati terminali negli hospice da lui stesso fondati a Bitonto. Si tratta dunque non tanto di parlare del “Fine vita”, pur se la legge in Italia è ormai definita con quel termine, semmai occorre occuparsi ad una «cultura della cura», della prossimità e «del sollievo al servizio della vita».
In poche parole, il n.2 della CEI chiede che si investa e molto nelle cure palliative, più che immaginare legislazioni complesse sul suicidio assistito o peggio l’eutanasia legale. Sebbene sia positivo che si possa finalmente discutere a livello politico di un tema così ingente, la preoccupazione dei vescovi italiani è quella di giungere ad un “bivio rigido” tra l’eutanasia, la “dolce morte”, e l’accanimento terapeutico, dimenticando invece tutto quanto gravita nel mezzo.
L’APPELLO DEL VICEPRESIDENTE CEI SAVINO VERSO LA LEGGE IN PARLAMENTO
Per il vicepresidente della CEI è proprio in quello spazio “mediano” che si muove l’interezza e la ricchezza dell’essere umano: la cultura della cura, piuttosto che un algido “Fine Vita”, punta esattamente all’accompagnamento attraverso una relazione che è vicino, consola e resiste davanti ad un mondo che guarda ad altro. Per mons. Savino si può arrivare sì ad una buona legge ma da sola non può minimamente bastare: serve infatti il pieno impegno a garantire una vita dignitosa fino all’ultimo respiro, con risorse per le cure palliative, per l’assistenza in hospice e strutture.

In poche parole, una “prossimità” non può essere improvvisata e sottovalutata: per questo se la legge non avrà a disposizione dei fondi importanti per le cure palliative e tutto ciò che ne gravita attorno, rimarrà solo “bella da leggere” ma incapace di comprendere il fenomeno. Secondo il vescovo Savino una “morte dolce” non può mai esistere, in quanto è possibile l’accompagnamento umano e rispettoso, il diritto a non soffrire e a non essere lasciati soli, ma non si può concepire un’aiuto alla morte.
Questo perché ogni vita umana è inalienabile, ha dentro un mistero tutto da umanizzare che una legge sul Fine Vita rischia di non sapere intercettare: come ribadisce il prelato, nessuno arriva a domandare di morire realmente «se si sente amato, accompagnato e riconosciuto». Serve però per questo una vera cultura palliativa, con più fondi e maggiori strutture impegnate in questo: in tal senso, le cure palliative non sono solamente un’alternativa all’eutanasia e alle sue derive, «ma è una forma civile e politica, un’alternativa etica alla cultura dello scarto e della morte che viene somministrata».
L’eutanasia, o anche il suicidio fornito dallo Stato, sono una risposta “semplice” di una società che smarrisce sempre più la capacità di rimanere nel limite: un dato emerge chiaro in Italia (e non solo), come mostrano le realtà di cura dei malati terminali citati dal vicepresidente della CEI. Nei luoghi dove la medicina della prossimità funziona ed è regolata, la domanda di eutanasia e aiuto al suicidio affievolisce fino quasi a sparire: in questo senso, conclude Savino, le cure palliative «sono un dover morale, spirituale e civile», un argine reale alla cultura della morte «mascherata da libertà».
La Chiesa in tal senso non chiede privilegi o “interferenze”, ma semplicemente un’alleanza di dialogo che sposti lo sguardo dalla rivendicazione di “diritti astratti” alla costruzione «di tutele e percorsi di cura che non lascino solo nessuno». Si può essere laici e non cattolici e difendere comunque il diritto ad una morte accompagnata, con un confronto serio e non ideologico: la buona legge sarebbe un primo passo ma, appunto, non l’unico.