A proposito di Trump, delle sue politiche, non starò a ripetere quello che i lettori di questo giornale sanno bene. Prima di tutto, che la politica di un impero è cosa troppo grande e importante per essere decisa da un solo uomo. Che esistono gli apparati, decine di poteri e contropoteri. La stessa politica estera e di sicurezza, per definizione monopolio di ogni Stato, è svolta da un numero impressionante di attori istituzionali e non.
In secondo luogo, un solo uomo non può tutto, perché i poteri del presidente USA non sono infiniti e assoluti come sembrerebbe dai molti racconti nostrani. Quel che è vero è che Trump si riappropria, anche simbolicamente, del primato della politica sull’economia per poter fronteggiare una sfida epocale: il rilancio del primato americano, il ridisegno dell’ordine mondiale davanti a contendenti agguerriti e che non fanno sconti, a partire dalla Cina, passando dalla Russia e per finire alle nuove potenze regionali in ascesa quali Turchia e Iran. Tutti regimi dove il comando politico assoluto è un dato di fatto.
E la manovra, il cambio di passo, va fatto con la nave che naviga in un mare in tempesta, cercando di arrivare in porto prima di tutti. Nessuno sa se alla fine vedremo una nuova concertazione degli Stati come ai tempi del Congresso di Vienna oppure il sorgere di un nuovo egemone o, ipotesi peggiore, un’anarchia tendente al caos, un sistema policentrico senza regole in balia degli eventi e delle paure. Trump riagguanta l’iniziativa, cerca di cambiare le regole del gioco mondiale prima di essere travolto dalle macerie. Ecco il primato della politica. Non è necessario essere d’accordo con i suoi metodi. Quello che è dovuto è capire la posta in gioco.
Smontata la prima favola che viene raccontata sul personaggio Trump, arriviamo alla seconda tessera del mosaico, che riguarda il contenuto delle politiche, con il caso più eclatante, l’introduzione dei dazi. Che cosa viene detto? Non mi intendo di economia, altri sempre sul Sussidiario spiegano benissimo i contenuti, ma quello che mi preme sottolineare sono due punti.
Il primo, non è vero che queste azioni siano improvvisate, frutto di una mattana ispirata solo alla vendetta. Il secondo: non è vero che è la prima volta che gli Stati Uniti cambiano le regole del gioco economico mondiale senza ascoltare chicchessia.
Nixon nel 1971 in piena guerra del Vietnam decise in modo unilaterale e all’improvviso di mettere fine al sistema di Bretton Woods e alla parità aurea del dollaro, accompagnando la decisione con l’introduzione di dazi. In pratica aprì una guerra commerciale con Europa e Giappone, cioè con gli altri Paesi occidentali, capitalisti e alleati! Ma insieme a questo passo vi fu l’apertura alla Cina, per isolare l’URSS. Rilancio dell’economia interna e apertura internazionale: ci ricorda qualcosa dei tempi attuali?
Riguardo al trattamento degli alleati, si veda il caso Ucraina: si ripete la condanna politica e morale di Trump, una sorta di novello Chamberlain. E si dimentica la storia. Gli imperi e gli Stati, nelle guerre non necessarie, cioè in quelle dove è permesso loro di scegliere, si sentono coinvolti fino a quando pensano che i loro interessi siano in gioco, fino a quando l’analisi costi-benefici conviene. È sempre stato così, e al momento opportuno, senza riguardo, senza rispetto, senza tener fede alla parola data, se ne vanno, abbandonano il campo.
Non piace? È riprovevole sul piano morale? Sì. Agli altri Stati, più deboli, conviene però prendere atto della realtà. Fu impressionante la fuga dal Vietnam, e che dire dell’ultimo abbandono di Kabul – Biden presidente -dove erano presenti anche gli eserciti alleati degli altri Paesi NATO? Forse gli Stati Uniti hanno concordato non dico con i poveri afghani, ma con gli alleati le modalità del disimpegno?
C’è una soluzione a questo stato di cose, un precetto pratico che dovrebbe essere tenuto a mente. Un principio di prudenza basilare: se un Paese alleato degli USA, ma vale per qualsiasi alleanza impari, non si vuol trovare nella scomoda posizione di un vassallo che combatte una guerra proxy, cioè per procura, deve contare al novanta per cento sulle proprie forze e giocare su più tavoli. Altrimenti si ritrova strumento in balia della volontà altrui. Le guerre di indipendenza e quelle di liberazione, dal Risorgimento al Vietnam, sono esempi da non dimenticare.
Ultima novella raccontata. Trump passerà alla storia come colui che ha scritto fine alla parola “globalizzazione”. È una sciocchezza colossale. I processi di globalizzazione sono anonimi, corrono su binari indipendenti dalle politiche. E sono talmente complessi, articolati e interdipendenti che pensare che una guerra commerciale blocchi dinamiche globali è pura idiozia.
Primo elemento, il sistema economico mondiale è uno. Il capitalismo ormai è penetrato in ogni anfratto dell’economia del mondo. La finanziarizzazione è un processo in corso enorme e pauroso, in grado di influire su qualsiasi politica economica industriale e commerciale di ogni Stato, anche degli imperi. L’ entità fantasma dei “mercati” esiste come esiste quella che in termini marxiani si chiama concentrazione del capitale e aumento del lavoro morto sul lavoro vivo.
Secondo elemento, l’esoscheletro tecnologico, in ultimo l’IA, di conoscenza, di media, di big data avvolge l’umanità.
Tutti fattori che appiattiscono il mondo e massificano, ma in modo anonimo, quelli che una volta erano i proletari, e li trasforma in moltitudine, moderna plebe di individui desideranti. L’americanizzazione del pianeta iniziata cento anni fa è qui, è avvenuta. Fenomeni come l’inurbamento e l’addensarsi della popolazione nelle città costiere sono universali, dagli Stati Uniti alla Cina. Hanno più comportamenti, stili di vita, idee, consumi, in comune uno studente di Shanghai e uno di New York, che lo stesso studente cinese e un contadino della Mongolia interna.
Trump non può mettere fine alla globalizzazione. Il presidente americano vuole mettere fine a “questa” globalizzazione. Cioè ad uno scambio ormai insostenibile per gli USA tra apertura commerciale, dislocazione dell’industria americana all’estero – fino a costringere la superpotenza ad acquistare le fregate FREMM da Fincantieri – e crescita paurosa del debito pubblico, con relativo sbilancio della bilancia commerciale.
Ecco il perché dei dazi alla Cina. Ma gli USA non possono né vogliono uscire dalla globalizzazione. Il dominio americano sui mari lo conferma, la potente flotta americana serve proprio a garantire quella libertà di commercio che è uno dei pilastri della globalizzazione (ne sanno qualcosa gli Houthi).
Questa mossa comporta di conseguenza anche la fine dell’ideologia liberal della globalizzazione, dell’idea che un processo economico-sociale sia di per sé sinonimo di progresso, di aumento della libertà nel mondo. Una favola a cui si è voluto credere per pigrizia, ignoranza. Falsa perché in realtà nel mondo la globalizzazione comporta e ha comportato tensioni fortissime, perché squassa gli assetti dati delle singole comunità, provoca nuove distribuzioni di potere globale e resistenze locali.
Proprio perché globale e anonima, la globalizzazione non è, insomma, un processo facile e forse possibile da gestire. Narrazione falsa, perché i dazi quando fanno comodo ogni Paese li introduce: anche l’Unione Europea sulle auto elettriche cinesi li ha imposti.
Trump spaventa noi europei perché improvvisamente, nonostante sia per lo meno un decennio che ci venga detta in tutte le salse la verità, non abbiamo voluto vedere la realtà. E la realtà ci dice che abbiamo vissuto in modo incosciente, sopra le nostre possibilità, facendo finta che tutto il mondo sia fatto a nostra immagine e somiglianza. Beata illusione!
Il tema che la politica dovrebbe trattare non è Trump, ma quale sia la crisi che stiamo attraversando, quale il mondo che gli USA vogliono e quale sia per noi italiani un ordine mondiale possibile, e quale sia il posto del nostro Paese in questa nuova realtà che si sta delineando.
Bene allora l’azione diplomatica della presidente del Consiglio Meloni che, senza rompere con l’Unione Europea, è riuscita ad accreditarsi presso la Casa Bianca nel ruolo di mediatore, senza inutili protagonismi, postura inadatta e velleitaria per il peso dell’Italia, per uno Stato che non siede nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che non dispone di armi nucleari, che spende pochissimo nella difesa e si porta sulle spalle un debito pubblico pauroso.
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